lunedì 14 novembre 2011

Tre giorni di centro commerciale

È impressionante la capacità che hanno le persone di girare la testa dall’altra parte.
Prendiamo, ad esempio, i comportamenti stradali: c’è stato un incidente? Io non c’entro: è colpa dei freni che non hanno frenato; degli pneumatici che non hanno tenuto, della casualità.
Prendo una multa: è colpa dei Carabinieri che mi hanno fermato (non mia che sono passato col rosso); del semaforo che non si vede eccetera.
Tutto ciò malgrado sia statisticamente provato che più del 95% degli incidenti è dovuto ad un errore umano. Ma la cosa che più impressiona è la leggerezza con cui i giovani affrontano il problema. Volete un esempio: provate ad andare in un centro commerciale con un simulatore di guida e state attenti alle reazioni. In tre giorni si sono presentati decine di giovani tra i 18 ed i 25 anni, quindi appartenenti alla fascia di età più a rischio. Ebbene: due patenti revocate e quasi i tre quarti di loro che avevano già subito una o più decurtazioni di punteggio.
Eppure, l’atteggiamento alla guida è di estrema spavalderia. Non tengo la strada? Ma il simulatore non è come l’auto. In tre minuti di test mi gioco 15 punti della patente? Ma se dovessero beccare tutti!
Il simulatore SIMULA: quindi, ovviamente, NON è la realtà.
Ma, esattamente come l’auto che si guida quotidianamente, FA TUTTO QUELLO CHE IL SOGGETTO LE CHIEDE. Quindi, se il conducente guida con la mano sinistra alle dodici e la destra costantemente sul cambio, E’ OVVIO che alla prima difficoltà non tenga la strada.
Quello che più colpisce è la presunzione che hanno i nostri ragazzi: ancora fanno fatica ad accettare che avere la patente è diverso dall’essere un pilota. Sono incapaci di comunicare con gli altri automobilisti; sono disattenti alla segnaletica; tentennano nel dare semplici risposte di base. Spesso capita che non sappiano cosa dire se si chiede loro, ad  un incrocio, di indicare se la strada che stanno imboccando è a senso unico o doppio. Sono incapaci di utilizzare lo sguardo in maniera appropriata: hanno, in una parola, i difetti e le paure dei principianti. L’Italia è un paese in cui manca (o è spaventosamente latente) la cultura della sicurezza stradale: e questo è purtroppo dimostrato dai dati. Il numero di morti nell’ultimo decennio è calato del 40% circa; una media importante certamente. Ma gli incidenti, in valore assoluto, hanno subito un calo inferiore al 20%. Vuol dire che se fortunatamente si muore meno e ci si fa meno male in strada, ciò è dovuto molto al fatto che le auto sono più sicure, e solo secondariamente alla coscienza degli automobilisti.
Se tutto ciò non è sufficiente per aprire gli occhi …

Disabile, che significa?

Il 30 ottobre si è svolta una competizione di sollevamento pesi in cui si sono confrontati atleti normodotati ed atleti disabili.
A questo punto una domanda sorge spontanea: che cosa vuol dire “disabile”?
Più in generale: quando la smetteremo di etichettare le persone in base a colore della pelle, sesso e gusti sessuali, luogo di origine ed altre amenità?

Nella foto: Valentino Statella, insegnante tecnico FIPE, ha appena terminato la sua prova

lunedì 24 ottobre 2011

Veritiere o no? Tra pochi giorni le statistiche sugli incidenti stradali

Negli ultimi anni, novembre è stato il mese nel quale L’ACI ha reso pubbliche le statistiche sugli incidenti stradali. Attualmente siamo fermi al 2009; pertanto i dati di cui siamo in attesa saranno relativi all’anno 2010. La prima considerazione è relativa alla tempistica: appare abbastanza limitativo il fatto che paesi come la Svizzera abbiano i dati in tempo praticamente reale e noi invece siamo in ritardo di quasi due anni.
Nel 2009, comunque, le statistiche hanno riguardato  il comportamento dei conducenti e le conseguenze di circa 200.000 casi. Va subito detto che gli incidenti presi in considerazione sono quelli gravi, quelli cioè nei quali ci sono stati morti e feriti. Le statistiche sono redatte sulla base delle rilevanze della Polizia Locale, della Stradale e dell’Arma dei Carabinieri.
Secondo i critici, il fatto che il campione non comprenda tutte le rilevazioni effettuate potrebbe rendere i risultati meno attendibili.
È altresì vero che le statistiche sono, appunto, statistiche. Servono quindi a definire una tendenza più che a fornire dati certi. Se fatte con criterio, riescono però a fotografare con ottima approssimazione la situazione.
Dal 2000, si è registrata una progressiva diminuzione del numero degli incidenti, tale da poter pensare al raggiungimento dell’obiettivo comunitario fissato proprio nel 2000 e che prevedeva la riduzione del numero di morti e feriti del 50% nei successivi 10 anni. Il dato preoccupante è un altro: se il numero degli infortunati è crollato di oltre il 40%, non è accaduto altrettanto per il numero di incidenti rilevati (che, giova ripeterlo, sono quelli gravi): si è passati dagli oltre 263.000 del 2001 ai circa 215.000 del 2009, Con una diminuzione che si attesta sul 19%. Lo stesso indice di mortalità è passato da 27 deceduti ogni 1000 incidenti a 20, con una diminuzione del 25% circa. In sostanza: dai dati potrebbe emergere una lettura della realtà solo in parte lusinghiera. Le strade causano meno morti, ma il numero degli incidenti non diminuisce in maniera altrettanto significativa. Se ciò rispecchiasse una tendenza di fondo, significherebbe che gli italiani in auto si fanno meno male rispetto a 10 anni fa, ma il numero dei tamponamenti non decresce così rapidamente. E questo ha una causa principale: la mancanza di un’adeguata formazione. Infatti i più coinvolti nei sinistri, purtroppo, sono i giovani (nella fascia di età compresa tra i 20 ed i 34 anni si verificano il 27% dei morti totali ed il 33,5% dei feriti); il che dimostra quanto siano impreparati ad affrontare la strada. Se la patente a punti,  i controlli sempre più serrati ed una certa prese di coscienza che, bisogna dirlo, porta ormai molti conducenti ad allacciare le cinture (perché solo sui posti anteriori?), ad indossare il casco, hanno come obiettivo i conducenti già formati, manca ancora all’interno delle coscienze degli allievi conducenti la capacità di valutare in pieno le possibili conseguenze dei propri atti.


domenica 16 ottobre 2011

Ma gli pneumatici invernali sono veramente utili?

Inizia la stagione fredda e, come ogni anno, sorge la questione: è proprio così importante cambiare le gomme dell’auto?
Da l’anno scorso, peraltro, in molte provincie del Nord è obbligatorio che i veicoli siano dotati di pneumatici invernali o catene a bordo. Viene da chiedersi, per inciso, quando ci sarà uniformità normativa. Perché, in sostanza, in alcune province del  Nord gli pneumatici invernali non sono obbligatori ed in altre (magari confinanti) si?
Ma la questione, più che amministrativa, è relativa alla sicurezza. In realtà è ormai dimostrata l’utilità delle “calzature” invernali in merito alla sicurezza. Gli pneumatici termici iniziano a fare la differenza anche a temperature relativamente alte: già a 7 gradi le performances in merito a tenuta di strada e spazi di frenatura di un veicolo dotato di gomme termiche sono migliori rispetto a quelle con pneumatici cosiddetti “quattro stagioni”.
È peraltro ovvio che qualsiasi dispositivo o strumento tecnico può aiutare, non sostituire, il conducente. Le autovetture moderne hanno un tale grado di tecnologia da limitare ormai gli interventi del guidatore quasi alla “normale amministrazione”. ABS, ESP e quant’altro, servono a fornire aiuti importanti nelle situazioni limite, quando cioè la manovra di emergenza è particolarmente delicata.  Una frenata su superfici a diversa aderenza, ad esempio, è ben diversa se effettuata da veicoli dotati di ABS rispetto a veicoli che ne sono privi.  Il problema è che quando l’elettronica non ce la fa più, le possibilità di compensare manualmente sono estremamente limitate. La sensibilità media dei conducenti, però, è ben lungi dal fare propri questi concetti. In paesi con altro spirito, ad esempio la Svizzera (stiamo parlando dei nostri vicini di casa, non degli alieni), il cambio degli pneumatici all’inizio della stagione fredda è ormai diventata un’abitudine manutentiva ordinaria. Gli svizzeri non hanno dubbi perché  danno per scontato (come effettivamente è) che aumenti la sicurezza con pneumatici realizzati con mescole appositamente studiate per reagire alle basse temperature. Quando, anche da noi avremo questa maturità?

domenica 9 ottobre 2011

dal 7 ottobre si dimezzano i tempi per i ricorsi stradali

Stretta del Governo sui tempi per inoltrare ricorso contro le infrazioni stradali.     
L’articolo 7 del Decreto Legislativo 150/2001, prevede il dimezzamento dei tempi per inoltrare opposizione all’Autorità in merito alle sanzioni comminate.
Fino a ieri, il cittadino che si riteneva vittima di una sanzione ingiusta, aveva 60 giorni di tempo per opporsi. Il Codice della Strada prevede la possibilità di interpellare in prima battuta, il Prefetto competente nella località in cui è avvenuta l’infrazione, oppure il Giudice di Pace. Oggi, questi termini si sono ridotti a 30 giorni.
Dal 2010 la presentazione del ricorso verso il Giudice di Pace non è più libera ma soggetta ad un contributo che, peraltro, il D.L. 98/2011 ha elevato a 37€ minimo. È rimasto “free” (ma, viene da chiedersi, per quanto) l’appello all’Autorità Prefettizia. La ragione di tutto ciò pare sia dovuta all’enorme numero di ricorsi, in molti casi pretestuosi, che ha inondato negli anni passati gli uffici Giudiziari. In realtà,  se la maggior parte dei ricorsi veniva (e viene ancora) accolta, forse ciò è dovuto agli eccessivi pruriti delle massacrate casse pubbliche. Infatti, i controlli della circolazione raramente hanno per scopo la sicurezza stradale. È un fatto che la maggior parte delle contravvenzioni  irrogate dalla Autorità di Polizia comprendono il divieto di sosta, il superamento del limite di velocità ed il passaggio con semaforo rosso. Che, guarda caso, sono sanzioni semplici da erogare. Sarebbe interessante sapere quante sanzioni vengono comminate per il mancato utilizzo della cintura di sicurezza da parte dei passeggeri dei posti posteriori di un’autovettura; oppure quelle relativa alla guida mentre si utilizza il telefono. Per non parlare poi dei meravigliosi: di coloro cioè, che pur di non fare il giro dell’isolato entrano contromano (ma sono poche decine di metri, cosa vuoi che succeda?), magari sotto l’occhio distratto del vigile. Proprio in merito alle sanzioni maggiormente gettonate, vi sono alcune considerazioni da fare. Molti comuni si sono dotati di centinaia di parcheggi a pagamento (anche là dove la normativa prevede che debbano essere affiancati da un congruo numero di parcheggi liberi) e di pattuglie di ausiliari del traffico con il solo compito di sanzionare il divieto di sosta. È evidente che pagare del personale perché sanzioni il divieto di sosta ha il solo scopo di fare cassa. Inoltre, se si analizza la casistica giudiziaria, si ha il sentore che la tendenza giurisprudenziale sia  volta alla limitazione degli abusi  nell’utilizzo dei cosiddetti “autovelox” e “fotored”. Lo scopo dell’introduzione dei controlli elettornici è quello di alzare il grado di sicurezza attraverso uno strumento preventivo. Ma è evidente che i dispositivi siano stati utilizzati per la solita ragione: fare cassa. A ben vedere, spesso i limiti di velocità sulle nostre strade sembrano essere eccessivamente bassi. Lo scopo della circolazione è far defluire il traffico in sicurezza, il limite eccessivamente basso va in direzione contraria a tutto ciò. Anzi: favorisce la formazione di code ed  inquinamento. Fatto sta che, forse anche per questa ragione, i conducenti non sono molto attenti al rispetto della segnaletica. Questo comporta due problemi. Primo: la segnaletica viene ignorata anche quando è posizionata con criterio; secondo: i conducenti diventano sempre più incapaci di prevenire la situazioni a rischio. Malgrado tutto ciò, per anni gli autovelox sono stati posizionati in tratti di strada con limiti particolarmente bassi; nascosti alla vista, ecc. Gli abusi sono stati talmente tanti che una sentenza della Cassazione del 2009 prevede di preavvisare gli utenti con almeno 400 metri di anticipo rispetto alla collocazione dell’autovelox mobile. Per non parlare del forte pregiudizio da parte della Suprema Corte nei riguardi dei vari fotored. La tendenza giuridica, infatti, è quella di ritenere i fotored strumenti poco attendibili. La norma prevede che i conducenti che si approssimano agli incroci regolati da semaforo, allo scattare della luce gialla debbano immediatamente decidere se la loro posizione e la loro velocità consentono l’arresto in sicurezza. Qualora ciò non fosse possibile, debbono sollecitamente sgombrare l’incrocio utilizzando la massima cautela. L’orientamento dell Corte Suprema è quello di ritenere che la sola valutazione delle risultanze fotografiche, anche se fatta da un agente di Polizia, non sia sufficiente per avere la certezza dell’infrazione. La Corte ha più volte ribadito che solo la presenza “sul campo” dell’Autorità possa togliere qualsiasi dubbio in merito al comportamento del conducente. Siccome è necessaria una valutazione in tempo reale di quanto accade, ciò non và al di là del più semplice e razionale buon senso!
L’accorciamento della tempistica sui ricorsi, quindi,  è presumibile che più che scoraggiare i pretestuosi (che non sono la maggioranza), lasci ancora più libertà alla longa manus pubblica di infilarsi nelle nostre tasche. Infatti, vista la situazione economica, la stretta del Governo sui finanziamenti agli Enti Locali e la non proprio virtuosa capacità di utilizzo dell’Autorità in questo settore, è presumibile che nei prossimi mesi aumenterà il numero delle sanzioni.

mercoledì 28 settembre 2011

La Milano di Porta Genova

La Milano degli anni ’70 era ancora ricca di una eccezionale vitalità di quartiere.
Accanto alla nascente “city” degli affari, vi era ancora la “città” dell’industria, quella formata dalle fabbriche delle periferie e dalle case di ringhiera degli operai. La ricchezza umana che esplodeva tra via Tortona e via Savona, soprattutto nella zona immediatamente adiacente alla stazione di Porta Genova, era l’indice del fermento, col quale la vecchia Milano di prima della guerra si stava fondendo con la nuova città. I movimenti migratori dal meridione degli anni ’50 e ’60 avevano prodotto un nuovo tessuto sociale. All’inizio vi era senz’altro ostilità e rigetto tra i locali e queste persone con una storia ed una cultura affatto diversa; in seguito, molto lentamente, le differenze geografiche si ricomposero in funzione dei problemi pratici.
L’affitto da pagare, i figli da mandare a scuola, i problemi di lavoro non stavano certo a guardare alla provenienza. I figli degli immigrati e quelli dei milanesi iniziarono ad incontrarsi, a frequentarsi, a sposarsi. In sostanza: negli anni ’90 non si poteva più parlare di “milanese” con la stessa accezione di trenta anni prima: la storia aveva superato le diversità.
Vivere Porta Genova negli anni ’70 significava vivere quel fermento. La via Tortona, verso la fine, si apriva sui palazzoni moderni; percorrendola a ritroso, dopo l’incrocio con la via Bergognone, si abbandonava la città per entrare in una dimensione più paesana. Proprio all’angolo tra via Tortona e via Bergognone vi è ancora un caseggiato in puro stile “industria di periferia” che era allora adibito a scuola elementare.  I ricordi più marcati di quegli anni sono però i profumi: l’odore del caffè diffuso in strada nella prima mattinata (la scuola iniziava alle otto), il profumo del pane appena sfornato, il sentore grasso e ricco dei risotti verso mezzogiorno. Le case ammassate ed i passaggi stretti li facevano ristagnare parecchio e ciò era uno spettacolo per l’olfatto.
Chi avesse avuto la possibilità di guardare in alto, avrebbe visto lo spettacolo dei tetti. Le antenne televisive formavano una foresta di metallo tra gli abbaini attraverso i quali si vedevano le vecchie attendere alle loro occupazioni. Molti tra gli abitanti del quartiere avevano fatto (o subito) la guerra; erano sopravvissuti alla fame, alle bombe, al terrore dell’occupazione nazifascista. Entrando nelle vecchie case si trovavano ancora, di tanto in tanto, souvenir bellici. Un elmetto, scritte dei partigiani sui muri di quegli scantinati nascosti in cui, con gli occhi di un adulto, si può ben immaginare si sia svolta attività clandestina. Gli anziani (reduci o meno) si mischiavano con gli operai dell’Ansaldo che, a fiumi raggiungevano la fabbrica per iniziare il loro turno di lavoro, ed ai numerosi colletti bianchi che popolavano la parte moderna della via. Allora ero un bambino timido e spaventato di fronte a questi adulti coi volti segnati dalla fatica. Guardavo le loro tute blu e le valigette ventiquattrore con un misto di paura e curiosità e non mi rendevo conto (e come avrebbe mai potuto essere diversamente, vista l’età) dell’eccezionale vitalità che stava trasformando quella parte di città, una volta ancora, in uno spettacolare laboratorio antropologico.

Oggi è persino difficile ritrovare le tracce di quel periodo: la via Tortona è diventata una delle via più alla moda della città. Anche in senso lato: in quel dedalo di stradine laterali un tempo impercorribili di notte, si trovano ormai solo agenzie di fashion ed eteree modelle, altissime ed anoressiche, che passeggiano frettolosamente. Non esistono più i piccoli negozi alimentari di quartiere nei quali si trovava ogni tipo di mercanzia, dal pane al latte, dalle caramelle alla pasta. Europa Radio non trasmette più il miglior jazz d’Italia sugli 88,300 Mhz in modulazione di frequenza dalla sua piccola roccaforte di via Tortona 14; Elda Botta, anima di quel sogno pazzesco e mia professoressa di italiano alle medie, ha terminato il suo viaggio.
Ma chi ha nell’animo quella straordinaria storia di Porta Genova, riesce ancora a respirarne la magia.

giovedì 22 settembre 2011

Ma è solo utenza “debole”?

Spesso sui giornali sono riportate notizie di incidenti occorsi a pedoni e ciclisti; la cosiddetta “utenza debole”.
Nel contesto sociale attuale, è purtroppo diffusa una generale insofferenza nei riguardi delle norme di comportamento in strada, anche quelle più elementari. Scarsa sensibilità, mancanza di un’adeguate formazione ed aggiornamento, fatto sta che alle volte viene da chiedersi se le persone sono realmente consapevoli dei rischi che corrono compiendo delle manovre sciagurate.Tra i più pericolosi vi sono senz’altro i ciclisti, i quali, sentendosi forti in base a presunte norme di precedenza ed agili per la facilità di guida del veicolo, ne combinano letteralmente di tutti i colori.Bisogna invece ricordare che la bicicletta, in base alle norma del Codice della Strada, è un veicolo come tutti gli altri e pertanto soggetto come gli altri al rispetto della normativa.  Pertanto quei ciclisti che si tuffano allegramente contromano, che non si fermano ai semafori, che si fiondano in mezzo alla carreggiata senza guardare, che si infilano nello spazio compreso tra la fiancata destra delle auto ed il marciapiede, lo fanno  soprattutto a  PROPRIO rischio e pericolo. In prima battuta considerando il fatto che l’equilibrio instabile della bicicletta è a rischio ad ogni minimo contatto!Bisogna inoltra ricordare che i ciclisti hanno la precedenza sui veicoli negli attraversamenti ciclabili della carreggiata E NON negli attraversamenti pedonali. Quindi se un ciclista vuole utilizzare un attraversamento pedonale, è obbligato a scendere dal mezzo e ad accompagnarlo a spinta. Il ciclista, inoltre, NON PUO’ utilizzare i marciapiedi, dal momento che questi ultimi sono destinati ad un pubblico pedonale.
A difesa della categoria c’è da dire che nelle nostre città le piste ciclabili scarseggiano, così come è scarsa la considerazione che si ha dell’utenza debole in generale. Spesso i pedoni sono trattati alla stregua di arredo urbano, così come un automobilista medio presta scarsa attenzione allo specchio di destra (che anche se non obbligatorio è ormai presente in quasi tutte le auto) quando svolta a destra.
Sufficienza? Disattenzione? Sottovalutazione del pericolo e/o supervalutazione delle proprie capacità?
Fatto sta che troppo spesso gli incidenti si possono evitare.  Ricordiamoci sempre che il 90% degli incidenti è causato da errore umano. E quindi è evitabile !!!

venerdì 16 settembre 2011

La “patente” e la “consapevolezza”

Molti sono ancora convinti che per conseguire la patente “bisogna” solo guidare in un certo modo, stare molto attenti alla forma (guai se ti fermi 10 centimetri dopo la linea di arresto), imparare a fare i parcheggi ecc. Tutto ciò sminuisce il valore del percorso formativo.
Quando si parla di guida, espressioni come “bisogna”, “si deve”, “è necessario”, perdono in gran parte dei casi il loro significato.
È importante che il conducente si senta sempre stimolato a cogliere il valore e le difficoltà che la strada può comportare anche al di là delle prescrizioni del Codice.  La guida è un’attività in continua evoluzione: oggi i veicoli e le tecniche non sono più quelli di trent’anni fa e fra trenta anni saranno superati. E allora cosa fare?
Di certo un buon punto di partenza può essere la cura e lo sviluppo della capacità di reagire immediatamente: imparare cioè a fornire una risposta diversa in presenza dello stesso stimolo.
Ed esempio: io posso capitare dieci volte in un quarto d’ora allo stesso incrocio (identico stimolo), ma il mio comportamento dovrà rispondere alla situazione momentanea (una volta c’è un pedone; un’altra ho la via libera ecc.). Ovviamente più passa il tempo e maggiormente si affina questa capacità. Al fine di migliorare con gli anni il proprio stile di guida, la semplice “pratica” quotidiana della strada è importante ma non basta.
Un conducente alla prime armi, avrà la tendenza a rapportarsi ai comportamenti di chi è navigato senza averne peraltro la capacità. Non si impara a guidare per semplice imitazione: chi conduce da decenni avrà un’attitudine all’analisi e alla previsione delle potenziali situazioni di rischio che va ben oltre quella legata “alla patente” e che inoltre è difficile trasmettere al neofita. Proprio perché acquisita nel tempo. Il neopatentato che cercasse semplicemente di imitare, oltre ad assorbire in pieno i difetti del proprio soggetto di imitazione, si potrebbe paragonare a colui che, avendo seguito un corso di pittura per corrispondenza, volesse dimostrare di essere Giotto!
In realtà la “consapevolezza” la si costruisce nel corso del tempo partendo da basi semplici ed ordinarie.
Ad esempio un serio percorso formativo iniziale, una certa esperienza “di strada”, ma soprattutto una chiara idea dei propri limiti  e di quelli del proprio veicolo.
Guidare al massimo è una cosa che va lasciata ai piloti in pista; in strada il semplice buon senso vorrebbe che ognuno di noi fosse al di sotto della propria soglia di guardia. Perché?
Perché se succede qualcosa di imprevisto si ha ancora l’opportunità di reagire. Un conducente che guida al limite delle capacità, in caso di imprevisto può contare sulla personale risorsa tecnica (ATTENZIONE: le manovre di emergenza SONO DIFFICILI, soprattutto quando entra in gioco il fattore emotivo) oppure … sulla fortuna!
In linea generale la formazione per conseguire la patente viene vista come una sorta di cilicio: una “punizione” necessaria per raggiungere l’obiettivo ma da dimenticare in fretta, inoltre la maggior parte dei conducenti non seguirà altri corsi di perfezionamento alla guida a meno che non abbia specifici interessi o esigenze professionali.
Se a questo aggiungiamo che gli esami di guida sono ancora strutturati come trent’anni fa (e quindi decisamente troppo facili per gli standard di circolazione odierni), è facile intuire come la “consapevolezza” maturi nel neo patentato in tempi molto lunghi.
Seguire con intelligenza un iter didattico aiuta a leggere la strada anche al di là della semplice forma, a comprendere le ripercussioni della segnaletica sul tracciato stradale e ad intuirne i pericoli. Ma soprattutto aiuta a non sentirsi dei piloti di Formula 1 per il solo fatto di aver superato l’esame di guida. E a diventare buoni conducenti in tempi più ridotti.

lunedì 12 settembre 2011

Da che parte sorge il sole qui?

Questo Blog è dedicato a Mimì Ianniello.
È un nome che ha poco significato per tutti coloro che Caserta la hanno sentita solo nominare o poco più. Per i Casertani (o una certa parte di essi) invece, Domenico Ianniello è stato un personaggio. Giornalista, storico del territorio, uomo di cultura a tutto tondo, ma prima ancora profondo conoscitore della Terra di Lavoro (che ha amato in modo viscerale per tutta la vita) e della sua gente.
E stato anche, anzi soprattutto, uomo schierato.
Al giorno d’oggi è facile confondere “schierato” con “intransigente” o, peggio ancora “settario”. E invece no; Domenico Ianniello, Mimì per tutti, aveva una dote straordinaria: il rispetto totale per l’individuo ed il suo pensiero. Il che aveva lo portava a scegliere le proprie amicizie a prescindere da opinioni e gusti personali.
Mai scontato, mai banale, sempre aperto al confronto, anche serrato, purché nell’ambito della convivenza civile e del rispetto. Ed è esattamente ciò che cercheremo di fare, nel nostro piccolo, di questo blog. Le regole sono semplici: verranno cancellati solo i post che contengono insulti, riferimenti all’intolleranza e al razzismo, turpiloquio. Cercheremo, nell’ambito dell’educazione stradale e della problematiche ad essa legate, di formare ed informare. E se non ci riusciremo … pazienza: sarà solo per demerito nostro.
Autoscuola La Motta.
P.S. la frase che accompagna il titolo è tratta da un aneddoto ricordato da Lino Martone. Potrete Leggerlo sul link: http://www.casertace.it/home.asp?ultime_news_id=11972.