mercoledì 19 giugno 2013

Il problema della tradizione demolita

In effetti, “l’accumularsi della tradizione” è alla radice di ogni sviluppo culturale. Cultura e tradizione sono legate a doppio filo. Far parte di una cultura significa, in effetti, far parte di una determinata tradizione culturale. Se ne può esser parte direttamente o solo indirettamente, di riflesso, questo è vero. Oggi, però, abbiamo individui, ed in ogni parte del mondo, che non sono parte, neppure indirettamente, di una qualsiasi tradizione culturale. Le reazioni violente, senza scopo apparente, nascono da coloro i quali, sentendo rabbia, anche forse per giustissime ragioni, sono del tutto incapaci di esprimerlo nei termini di una tradizione culturale qualsiasi, per quanto magari compresa solo alla lontana ed indirettamente. Non possono, allora, che esprimere in modo rozzo e bruto lo stato che sentono. Oggi abbiamo movimenti, ma di solo corpo, senza testa. Non può che agire così chi, ormai, non ha più storia. Il problema della tradizione demolita, in effetti, è oggi da ricollegarsi ad un altro problema, esploso negli ultimi tempi: la distruzione della storia. I due fenomeni sono ricollegabili direttamente.
Anche qui, non si è raggiunto il culmine in due giorni. Prima la tradizione è stata posta in questione, poi la si è distrutta con la globalizzazione. Il capitalismo nella fase della globalizzazione è stato il più potente distruttore di tradizioni della storia, altro che comunismo! Ma è passato per “liberatore”, qui è stato il gioco delle tre carte! Prima della fine del secolo XVIII e del XIX secolo poteva esistere la fine di una tradizione, la lotta di una tradizione culturale contro l’altra, con la conseguente distruzione di quella soccombente, ma mai si trattava di distruzione “della” tradizione tout court, integralmente, “in quanto tale”, fuori da un’altra aggettivazione che la faccia comprendere, tipo tradizione giudeo-cristiana o d’altro genere. Si parla di lotta fra tradizione e modernità solo da quell’epoca, che, però, come si è detto, è quella del capitalismo nella sua fase precedente alla globalizzazione. La globalizzazione è l’epoca nella quale la lotta si è definitivamente conclusa con la vittoria della modernità. Ma, ed ecco la risultante, questa vittoria crea un vuoto e viene riempita da ciò che si reputa, nel mondo moderno stesso!, debba essere o fosse la tradizione. Si tratta di una tradizione come vista oggi, il taglio rispetto alla storia impedisce di vedere le cose come sono. Ma l’effetto finale, allora, sarà una sorta di ibridazione. Le forme tradizionali, quindi, possono sussistere, ma sostanzialmente in una forma “mista” con la modernità, un “ibrido” tradizione/modernità. E un ibrido non può avere l’autorevolezza del passato, né la sua forza. Quest’ibrido alla fin fine è impotente, come il mulo, frutto dell’unione fra asino e cavallo, ma il mulo non dà altri muli! Da un mulo non hai un altro mulo. Il che rimette in moto il ciclo distruttivo, se quest’ibrido non si fa forte della radici storiche e non cerca di ricollegarvisi, fuori dal gioco di specchi moderni. Ma è molto più difficile di quel che si creda.
Il richiamarsi al discorso “identitario” è inutile o ben poco utile, a tal proposito. Infatti, l’identità è un fenomeno non solo complesso ed articolato, ma mutevole nel tempo, capace di adattamenti, cambiamenti, evoluzioni, arretramenti, modifiche, pur rimanendo l’identità se stessa. E’ tale capacità di cambiare rimanendo se stessi che testimonia di un nucleo “identitario”, nucleo che l’Occidente ha perso, qualsiasi cosa vengano a dirci sulla pretesa identità, quali che siano i voli pindarici detti a tale scopo. Un’identità vera, seria, non isterica – l’isterismo denota sempre un’identità debole – è in realtà una composizione di tradizioni culturali diverse. L’identità occidentale si compone di varie correnti tradizionali, così quella cinese, indù o altro.
A questo punto, occorre andare avanti nel nostro discorso ponendosi due domande: 1) Che cosa c’è nel capitalismo nella fase della globalizzazione che gli fa combattere ogni forma di tradizione, in quanto tale, qualsiasi essa sia; 2) Se la tradizione sia solo un oggetto storico o rifletta dell’altro.
Il primo punto è d’importanza decisiva. Il capitalismo distrugge ogni tradizione perché è un agente di uniformizzazione. Per il capitalismo c’è un solo “imperativo categorico”, il resto è questione di gusti soggettivi, tutti fasulli. Dunque l’atteggiarsi del capitalismo a “difensore della libertà religiosa” fa solo ridere riguardo all’ingenuità di chi gli ha creduto. Dunque, ogni cosa che sia diversa da quest’imperativo occorre cercare di ridurre alla stessa forma. I modelli si sono ridotti nel corso del tempo, ed allo stesso modo le varietà delle culture. Questa riduzione, quest’impoverimento ed uniformizzazione hanno, però, costruito una sorta di “bomba culturale” nelle menti umane: l’assenza di senso, di direzione, di uno scopo nella vita. E questa è, e sarà, la grande questione culturale dei tempi attuali e futuri prossimi. E’ ciò che taluno ha convenuto chiamare il “nichilismo” realizzato. Non è che “non ci sono valori”, ce n’è una profusione, ognuno piccolo ed impotente, che abbaia contro la Luna, e tutti sottomessi all’unico disvalore.
Riguardo al punto due, si può pensare, con Guénon, che nelle origini delle forme tradizionali vi sia sempre un elemento che non si può ridurre all’umano, al solo umano, per lo meno. Vi è qualcosa che sfugge, qualcosa d’inspiegabile, qualcosa che può esser che inevitabilmente trascenda la mera dimensione umana. Tutti quelli che hanno distrutto le forme tradizionali, forse, non avevano come scopo distruggere questa o quella, per dei motivi immediati, ma, in realtà, odiavano questa stessa dimensione “X”, chiamiamola così, perché qui non interessa definirla, qui c’interessa solo evidenziare la possibilità della sua esistenza. Perché, in tal caso, molte caso avrebbero senso, molte cose sarebbe possibile spiegarle.
Attenzione al grandissimo errore. Quasi tutti quelli che vedono questa sorta di lotta tra mondo moderno e  tradizione, sostengono spesso che il capitalismo, che è stato la punta di diamante in questa lotta senza quartiere, abbia compiuto tutto ciò per una causa economica. Nulla di più errato! Il primato dell’economico su ogni lato della vita umana è il frutto del sistema dominante, e cioè si tratta di un portato storico e culturale, non di un dato “naturale” della storia umana, che, anzi, ci dimostra che il primato dell’economico è caratteristica delle età ultime, stanche, finali. Dunque come poteva essere che l’azione di quel sistema, il cui scopo era di imporre queste determinate caratteristiche culturali, presupponesse, per agire, l’esistenza già in atto di quelle stesse caratteristiche culturali?! Non può essere. Lo scopo era imporle. E sono state imposte a causa di tutta una serie di fattori e forze, ma quello era lo scopo.
Oggi, come si è detto, siamo nella fase della globalizzazione, nella sua fase finale, quando il mondo globalizzato, non potendo più espandere la sua forza, inizia inevitabilmente a collassare su se stesso in un processo che vediamo sotto i nostri occhi. Abbiam visto che ciò che oggi possiamo constatare storicamente non sono forme “pure”, ma ibridi, di fatto.
Che fare, dunque? Da un lato, bisogna essere consapevoli del fatto che sono ibridi e, dall’altro, che solo ibridi oggi possiamo avere. Il che non significa che non vi sia la necessità di cercare più oltre, all’indietro e all’avanti. E’ vero l’opposto, non cercheremo però più di risolvere un problema nei suoi stessi termini, ma cercheremo di andare oltre.
Quanto all’implosione sistemica, essa nasce da cause interne. Sebbene la cosa ci riguardi personalmente e per quanto non possiamo non viverla, se avremo compiuto il “passo fatale”[1] del cambiamento di prospettiva, non avremo dubbi, anche qui, che occorra inevitabilmente “andare oltre”, ancora e di nuovo.
Andrea Ianniello






[1]            Si narra che un re goto, per impedire al suo popolo di voler tornare indietro, nel passare un ponte su di un grosso dirupo, dopo distrusse il ponte stesso. La fonte è Jordanes: Storia dei Goti, Tea Storia, 1999.

Incontro Familismo italiano e familismo cinese

Si è recentemente svolto nei pressi di Caserta un incontro su “Familismo italiano e familismo cinese”. L’Europa oggi è problematica, non tanto per l’Euro in se stesso, ma perché non vi è un’idea comune d’unità europea e tale assenza ha riportato in auge i classici, mai morti davvero, nazionalismi europei.
La debolezza dell’Italia, precipitata in tale situazione europea, è però più antica, storica. Una delle sue classiche pecche è il “familismo amorale”, parola che Putnam ha diffuso, pur non essendone l’inventore, che fu Banfield nel 1954, in una ricerca significativamente svolta su di un piccolo paese della Basilicata. Il “familismo” è dare la maggior importanza possibile agli interessi del proprio gruppo, considerato come separato da ogni altro gruppo simile, ed è detto “amorale” non perché “immorale”, ma perché non riconosce altro valore di riferimento se non il rafforzamento del proprio gruppo.
Quanto a Putnam, la sua ricerca è di venti anni fa, ed è importante rifletterci dopo venti lunghi anni, che hanno visto l’irreversibile disastroso declino di un’intera nazione.
Il libro è: Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori settembre 1993. Esso dimostra come il “capitale sociale”, vale a dire la capacità di porsi assieme per uno scopo comune, sia molto basso nel Sud d’Italia. La causa profonda, sosteneva Putnam, sta nel passato: quando il Regno normanno-svevo scelse una politica di accentramento, mentre il Nord Italia, e parte del Centro, prendevano la via dello sviluppo comunale.
Quel che sostiene Putnam non è falso, ma parziale, e soprattutto deve essere rivisto di fronte al naufragio dell’Italia intera, e, in tale naufragio, il ruolo del Sud è stato lo stesso che nella fase dell’edificazione del successo: il mero comprimario.
Il problema è che tale scarso capitale sociale non si ritrova nelle regioni italiane derivate dallo Stato pontificio. Nel corso dell’incontro è stato proposto un cambiamento di quello schema interpretativo, pur nel mantenimento di certe cose giustissime che Putnam sosteneva. Si è, inoltre, trattato en passant anche di tanti altri temi.
Che cosa c’entra il “familismo cinese”? Esso è praticamente similissimo a quello italiano, con la grande differenza che non è “amorale”, ovvero esiste in quel paese, un valore superiore agli interessi dei gruppi “familistici”, in nome del quale puoi fare qualcosa, al di là degli interessi “particolaristici” dei vari gruppi stessi. In Italia, invece, solo l’emergenza costituisce l’unico e solo strumento per imporre un cambiamento condiviso in una società non in tutti i casi, ma nella maggior parte, divisa in gruppi chiusi.
La differenza, rispetto a vent’anni fa, è che oggi non possiamo più pensare che sia il solo Sud a seguire il familismo amorale: no, è l’Italia tutta ad essere così.
Andrea A. Ianniello

domenica 2 giugno 2013

Qualche riflessione sull'etimologia del nome "Caserta"


Riceviamo e pubblichiamo volentieri




E’ stato recentemente pubblicato l’ultimo numero dei Quaderni Campano-sannitici, vol. XI del gennaio 2013 (collegato alle Giornate in onore di G. Tescione), dedicato alla Bolla di Senne (o Sennete), che “segna”, per così dire, la Diocesi di Caserta. I Quaderni, va detto, sono un importante contributo interdisciplinare, nel senso che, concentrandosi sulla Bolla di Senne, in realtà spaziano su vari temi e da differenti angoli visuali. Qui ci si concentrerà sul contributo di D. Caiazza intitolato: “Nomi e paesaggio nella Bolla di Senne”, e, in tale articolo, ci si concentrerà sul tema che qui più interessa: l’etimologia del nome di Caserta. Due annotazioni, tuttavia, vanno fatte: che la Diocesi di Caserta iniziasse nel XII sec. (l’epoca della Bolla) e che, quindi, la relazione con Calatia e Sant’Augusto fosse una tarda rielaborazione (del XIX secolo probabilmente) era già ben noto e dunque qui nessuna novità di sorta (cfr.: Dizionario Storico delle Diocesi. Campania, a cura di S. Tanzarella, L’Epos editrice 2010, pp. 256-280).
Veniamo subito in medias res, all’etimo del termine Caserta. Caiazza considera l’etimo di Caserta, derivante da Casa “irta” sul colle, come una costruzione tarda e colta, il che può anche starci, ma, se non vogliamo far derivare “irto” da “erto”, dobbiamo pur fare riferimento ad altra etimologia; Caserta è “erta”, infatti, solo vedendola dal piano, ma su, in collina, è un posto piatto, adatto agli armenti. Inoltre, rifiuta l’origine mista, di radice germanica e romanza, del termine Caserta, cui però dà un qualche rilievo in relazione alla probabile radice precisamente romanza e germanica, mista cioè, che lui rileva in altre località dal nome di Caserta o “Caserte”. Lui fa derivare questa probabile origine mista da cas-bert, quando è assai più probabile che, scegliendo una tale origine, sia da cas-hert (o heard), ovvero la casa del gregge. Secondo Caiazza, Caserta deriva da “casirat” in un documento notarile del 1149 siglato da Nicola Frainella (D. Caiazza, “Nomi e paesaggio nella Bolla di Senne”, Quaderni Campano-sanniti vol. XI 2013, p. 30), e, poi, per un fenomeno linguistico, la finale “-at” sarebbe divenuta “-ta”. Ma sarebbe potuto essere perfettamente un errore di scrittura, nient’affatto infrequente nei documenti notarili. Con i condizionali, non c’è mai fine. Ora, il punto è che Caiazza accetta sì la possibilità di origine mista per tutte le altre località chiamate “Caserta” o “Caserte” o simili, tranne la Caserta città (Caserta “vecchia” di oggi) sostenendo che nessuna di queste altre località è divenuta città e son tutte rimaste “recinto chiuso e fortificato per ricovero armenti”, come l’etimologia di casbert/cashert attesta e significa.
Ora però, se si legge Erchemperto, si scopre che i Longobardi di Capua, rissosissimi, i quali fondarono Caserta come città, si recarono sulla collina dove già vi era una località Caserta (cfr. D. A. Ianniello, Tre momenti storici della Civitas Casertana, Quaderni Associazione Biblioteca del Seminario Civitas Casertana 1999, p. 120 e sgg., il quale, a sua volta, fa riferimento a Erchemperto, Storia dei Longobardi, Salerno 1985, nn. 28, 30 e 40 in part.). Nel trattare delle etimologia, chiaramente longobarde, di Sala e Aldifreda, sul piano, Caiazza giustamente rileva che il movimento è stato dal piano alla collina. Per Sala accetta l’etimo longobardo, per Aldifreda invece un etimo… franco! Quello più accettato, ma che nasce da una profonda incomprensione dell’epoca delle cosiddette “invasioni barbariche” e dei Regni romano-barbarici che, tra l’altro, batterono certamente moneta, diversamente da come taluno ha detto in una recente trasmissione radiofonica. Si precisa che tali etimi longobardi si ritrovano in un mare di etimi di origine latina, importante questo punto. Ora, Sala era una forma di organizzazione della produzione, dove il “sala” era il luogo dove si versavano i tributi da parte dei tertiatores (coloni che dovevano al loro signore la terza parte dei frutti del fondo coltivato) della terra ai loro signori longobardi. Ed Aldifreda quindi deriverebbe dal franco Ala, tutto, e frith, pace, abbondanza, sarebbe come Alfredo. Questo è estremamente improbabile perché significa che dei Franchi si mescolarono a dei Longobardi, il che, a sua volta, sarebbe attribuire loro quella “poli-etnicità” della quale i Normanni furono portatori, perché fra loro sì che c’erano cavalieri di differenti etnie. Ma siamo in un’epoca molto ma molto diversa da quella longobarda, inoltre i Normanni furono una classe dirigente, i Longobardi furono invece una delle poche invasioni barbariche che s’insediarono davvero in Italia e la modificarono. L’assenza di classe dirigente in Italia, spesso di origine straniera o facente riferimento a potentati stranieri, è infatti un male profondo ed antico dell’Italia, con l’eccezione dello Stato della Chiesa, che è stato storicamente tra i pochissimi stati della penisola ad avere una qualche forma di classe dirigente, piaccia o non questo fatto. I Longobardi non solo non stavano lì a mescolarsi con i Franchi, ma spesso furono loro acerrimi nemici. Con un interessante relitto di riduttivismo scientista, nel dibattito alla presentazione Rivista alla Libreria Feltrinelli (in Via Corso Trieste), si è sostenuto che è un falso l’attribuzione del nome Aldifreda ad una inesistente principessa longobarda Freda. Verissimo, ma che c’entra con l’etimologia del nome? Nulla. Infatti, tali attribuzione eponime spesso si ritrovano quando si è persa l’origine del nome. Quindi, piuttosto che un nome di persona, Alfredo (Alafrith), si suggerisce “alda” e frith, o “frida/freda”, pace, abbondanza. “Alda” è la forma longobarda, la forma tedesca, ovvero germanico dell’ovest, più simile al franco, è “alte”, antico e nobile nello stesso tempo, con la “–a” finale divenuta “–e”. In inglese è “old”, con la caduta della finale più trasformazione della “a” in “o”, ma c’è anche la forma “elders”, Anziani, dove addirittura la “o” iniziale diventa “e”, una completa trasformazione vocalica, tipica del germanico occidentale. Il longobardo invece mantiene la “a”, come avviene in certe lingue scandinave, più arcaiche: per Paolo Diacono i Longobardi deriverebbero dal Sud della Svezia e dallo Jutland attuali. In Svezia vi è una città chiamata Sala. E, sopra Sala, vi è Uppsala: upp, inglese up, sopra, Sala. Non solo, ma frith/frida/freda è femminile e la vocale terminale di “alda” diventa “aldi”, anche se la cosa può essere solo un fenomeno fonetico, sprovvisto di significato grammaticale.
Ci sarebbe molto da dire sulla questione dell’epoca romano-barbarica cosiddetta e sul tema degli “Sclavones”, gli “slavi” che i Longobardi portarono con sé, dalla “Pannonia” (attuale Ungheria) e sulla loro effettiva appartenenza etnica. Tre cose vanno, in brevissimo, notate: che questo soggiorno in est Europa rese i Longobardi ben diversi dai Germani occidentali e che, dunque, che vi si mescolassero è molto improbabile; che le bufale campane, portate dai Longobardi, son di origine bulgara, cioè balcanica; che l’origine bretone per la parte di Marcianise che dittonga nella pronuncia non tiene conto che lì si tratta di uno “schwa” seguito da “i” e non, come invece in inglese, da una “a” seguita dalla “i” (come accade nel termine inglese “I”, io).
Il succo della vexata quaestio è che, in realtà, spiace ricordarlo, la penisola italiana, ed in particolare il Sud, ha intrattenuto con i Balcani delle relazioni molto più strette di quel che comunemente si voglia ammettere. Spiace ricordarlo.
Andrea A. Ianniello