domenica 28 ottobre 2012

Quanto vale il lavoro delle autoscuole?




Antefatto: superstrada della Malpensa.
Una BMW sfila a forte velocità sulla corsia di sorpasso attaccata al veicolo che precede. Quest’ultimo prova a scansarsi rientrando a destra. Il conducente della BMW, una signora di mezza età che potrebbe benissimo essere scambiata per la vicina di casa, ancora prima del completamento della manovra di rientro, accelera bruscamente. Risultato: aggancia da dietro l’auto che precede e la ribalta. Solo per una pura questione di fortuna non ci è scappato il morto. Il ragazzo alla guida del veicolo ribaltato se l’è cavata con molta paura e qualche graffio, ma avrebbe potuto essere molto più sfortunato. Per un caso, solo per un caso, la traiettoria impazzita della sua auto non ha incrociato quella di altri veicoli. E se ci fosse stata una moto?
Giustificazioni della signora alla guida della BMW: “avevo fretta”. L’auto è risultata peraltro priva di assicurazione.
Ora, se una signora di mezza età (che dovrebbe quindi avere una certa esperienza e maturità) trova normale guidare come una pazza un’auto costosa e potente ma senza assicurazione “perché ha fretta”, e se nessuno l’ha ancora fermata stracciandole la patente (chissà quante volte questa persona ha attentato alla vita degli altri facendola franca), qualche problema strutturale ci deve essere.
Ed in effetti i problemi sono più di uno.
Innanzitutto c’è mancanza di senso civico: il tessuto sociale ormai da parecchi anni si sta  degenerando. Questo conduce inevitabilmente alla rivisitazione dei valori ed alla deresponsabilizzazione. È sempre colpa di qualcun altro: del capo, del professore che mi ha dato un brutto voto, del vigile che mi ha fatto la multa. Questa tendenza di fondo porta sempre più le persone a cercare scuse anche quando le scuse sono palesemente artificiali.
Poi c’è anche il fatto che la formazione è effettivamente carente. Programmi obsoleti ed una generale staticità della professione, rendono la preparazione dei conducenti italiani inadeguata rispetto a ciò che viene chiesto al giorno d’oggi.  
La didattica è poco cambiata negli ultimi decenni, le istituzioni e le organizzazioni di categoria hanno accentuato questa diffusa tendenza alla staticità con leggi e regolamenti che aumentano il carico di burocrazia, penalizzano la creatività e tendono a rendere un importantissimo lavoro di formazione umana e civile alla stregua un commercio qualsiasi. Risultato: la scuola guida è percepita dal pubblico come un’attività per cui non serve alcuna specializzazione; coloro che la esercitano non sono professionisti ma personaggi presi a prestito che non hanno trovato di meglio da fare nella vita. Nessuno, se accusato di omicidio si rivolgerebbe ad un avvocato dilettante, mentre la stragrande maggioranza del pubblico ha poche esitazioni quando si tratta di fare un’ora di guida con chi dilettante lo è sul serio.
Si è creato un meccanismo vizioso in cui per poter sopravvivere le autoscuole sono costrette a mediare tra la formazione e le esigenze commerciali. Leggi deliranti, come l’obbligo di fornire la “preparazione” per tutte le patenti, retaggio di interessi di parte obsoleti e miopi, non permette agli operatori di specializzarsi ed aggiornarsi. Un istruttore è “costretto”, per un mero interesse di bottega, a seguire sostanzialmente le stesse linee guida per preparare i candidati al conseguimento del C.I.G. così come coloro che devono conseguire la patente per condurre un autotreno. Non fare differenze, vuol dire una pericolosa tendenza alla superficialità. Cioè prezzi bassi ed apparente interesse della clientela. Ma in realtà non è così: quanto costa il carrozziere? Quanto l’assicurazione? E , soprattutto, quanto costa in termini di rischio di lesioni andare in strada senza adeguate conoscenze?
È il trionfo della mediocrità: la qualità ha un prezzo, ma non essendoci convenienza economica nell’offrire un prodotto qualitativo, si preferisce vivacchiare sul presente.
In tempo di crisi, inoltre, l’attenzione delle famiglie per i costi è più spiccata del solito.
Purtroppo il lavoro delle autoscuole è retribuito per quello che vale mediamente: abbastanza poco, il che evidentemente,  non è frutto di casualità o di fattori contingenti, ma di scelte scellerate e mediocri. Come al solito: l’Europa corre e si evolve, l’Italia sta al  palo nella speranza della bacchetta magica.

domenica 14 ottobre 2012

Sentenza storica della Cassazione: condannato a 16 anni. Fu omicidio volontario


I fatti risalgono a luglio 2008: in piena Roma un furgone condotto da un cittadino moldavo senza patente, e che per di più risulterà pure rubato, attraversava con il semaforo rosso e a più di cento chilometri l’ora un incrocio travolgendo un’auto e uccidendo uno degli occupanti, lo studente Rocco Trivigno. Riportavano gravi lesioni anche gli altri due passeggeri del veicolo, la sorella di Rocco, Valentina ed il fidanzato di lei Nicola Telesca, oltre ad una terza persona, Giuseppe Giuffrida che era a bordo di un’altra auto coinvolta nelle carambole dell’incidente.
Il 25 settembre scorso, Vasile Ignatiuc (questo il nome del conducente del furgone rubato) è stato definitivamente condannato a 16 anni di reclusione dalla corte di Cassazione per omicidio volontario.
La sentenza storica, però, non è quella dello scorso settembre, ma quella pronunciata il 1 febbraio 2011, dalla Prima Sezione Penale della Suprema Corte, che stravolgendo il risultato dell'appello rinviava a nuovo giudizio l’Ignatiuc proprio con l'imputazione di omicidio volontario.
In breve: in primo grado l’imputato venne riconosciuto colpevole di omicidio volontario, mentre in appello il reato fu derubricato in omicidio colposo, non ritenendo i giudici  che ci fossero sufficienti elementi per provare dolo nei fatti ascritti a Ignatiuc.
Per gli Ermellini, al contrario, il fatto di attuare coscientemente un comportamento sconsiderato (Ignatiuc fuggiva a folle velocità su un furgone rubato perché inseguito  dalla polizia) è condizione necessaria e sufficiente perché in caso di reato non si parli più di colpa ma di dolo. Ignatiuc venne rinviato a nuovo giudizio e nel settembre scorso la Cassazione ha posto la parola fine alla vicenda processuale con la definitiva condanna dell’imputato a 16 anni di reclusione.
La storicità di questa sentenza sta proprio nel fatto ribalta il concetto di “rischio” nella circolazione stradale: non più fatto marginale in caso di reato, ma  componente significativa nel complesso dell’accettazione delle conseguenze che talune manovre potrebbero avere sulla incolumità degli altri utenti della strada.  E’ peraltro questa una convinzione abbastanza diffusa nella giurisprudenza di paesi certamente più all’avanguardia del nostro in questo settore: l’incidente stradale è colà visto non come un’attenuante (che porta all’odioso concetto che i morti sulla strada sono morti di serie B),  ma come aggravante. Il semplice superamento di una forma mentis arcaica, unita all’applicazione della normativa esistente cancella con un colpo di spugna tutte le ipotesi di introduzione del fantasioso reato di “Omicidio Stradale”. Sarebbe questo un puro atto formale ed un cedimento ad un diffuso sentimento popolare che, giustamente frustrato dalla mancanza di fatto della punizione per chi uccide in auto, vedrebbe nell’introduzione di questo reato uno strumento più efficace di prevenzione e repressione. In realtà, come dimostrato da questa vicenda, la semplice applicazione della legge è più che sufficiente per erogare sanzioni esemplari. L’introduzione dell’Omicidio Stradale aprirebbe solo autostrade alle schermaglie processuali dei difensori degli imputati in un sistema che ha già ampiamente dimostrato di essere ipergarantista. Una semplice rilettura in chiave di buon senso del sano principio della responsabilità dei propri gesti, è stata quindi molto più efficace di fiumi di inchiostro. Rammarica il fatto che ad una simile conclusione sia pervenuta la magistratura e non il potere politico, che in questi anni ha brillato per la sua assenza (tranne rare eccezioni come la normativa sulla patente a punti) e forse ora è troppo impegnato a sopravvivere.