domenica 8 settembre 2013

Settanta anni fa l’Italia annunciava l’armistizio.

Furono ore convulse quelle dell’otto settembre di settant’anni fa!
Dwight Eisenhower era furioso: il 3 settembre nella località di Cassibile, in Sicilia, aveva incontrato il generale Giuseppe Castellano, plenipotenziario di Badoglio, per accordare al nostro paese l’armistizio.
Il ruolo di Castellano in quei giorni fu piuttosto controverso, così come lo fu quello del governo presieduto da Pietro Badoglio. Castellano si recò più volte in Sicilia, ma per qualificarlo come plenipotenziario, e quindi per far sì che egli potesse firmare l’armistizio, gli alleati furono costretti a compiere quasi un colpo di mano. La notizia avrebbe dovuto essere diffusa cinque giorni dopo, secondo gli americani, il giorno 12 in base ad un’interpretazione per certi versi del tutto congetturale dei nostri. In questi giorni in cui i tedeschi erano all’oscuro di tutto, gli italiani avrebbero dovuto organizzare il presidio e la difesa degli aeroporti di Roma in vista di un colpo di mano delle forze alleate volto a garantire il controllo dell’Urbe. L’operazione, nota col nome in codice Giant 2, non ebbe però mai luogo.
“Ike” attendeva con impazienza l’annuncio di Badoglio; puntava sul fattore sorpresa per limitare al massimo le perdite dovute alla prevedibile reazione dell’esercito tedesco.
Gli italiani temporeggiavano: illusi dal fatto che la firma dell’armistizio del giorno 3 desse loro ancora qualche margine di operatività, puntavano a ritardare l’annuncio al giorno 12.
In realtà quello che Castellano aveva firmato a Cassibile, il cosiddetto “armistizio corto”, era a tutti gli effetti una resa senza condizioni. Eisenhower lo sapeva e pretendeva che gli italiani rispettassero i patti sottomettendosi alla sconfitta. Nel pomeriggio fece redigere un furioso ultimatum in cui, in sostanza, ordinò al nostro Governo di dare l’annuncio senza ulteriori indugi minacciando ripercussioni.
Gli alleati, dopo una giornata convulsa nella quale avevano cercato in tutti i modi di trovare un interlocutore con poteri effettivi, annunciarono l’armistizio alle 18 e 30 dagli studi di Radio Algeri. Poco più di un’ora dopo, alle 19 e 42 per la precisione, anche Pietro Badoglio dagli studi dell’EIAR, lesse il famoso discorso col quale dichiarava la fine delle ostilità con gli anglo – americani.
La giornata dell’otto settembre del ’43 ebbe connotazioni che andarono dal tragico al surreale. Mentre gli alleati erano in fibrillazione vagando dalle prime ore del mattino tra i palazzi del potere romani, verso mezzogiorno il Re Vittorio Emanuele III incontrava l’inviato di Hitler, Rudolf Rahn, rassicurandolo che il nostro paese mai si sarebbe arreso. In realtà il sovrano sapeva benissimo che di lì a poche ore si sarebbe consumato il voltafaccia.
Alle 19 e 30, poco prima che Badoglio arrivasse agli studi EIAR, lo stesso Rahn, a Palazzo Chigi, allora sede del Ministero degli Esteri, riuscì ad esclamare “ma questo è tradimento” quando Raffaele Guariglia lo informò dell’armistizio.
Si concludeva così la guerra contro gli Anglo-Americani.
Affermare che il nostro Governo abbia dimostrato in questa occasione superficialità ed impreparazione è essere sostanzialmente teneri. Il Re, Badoglio ed il suo staff erano stretti tra l’illusione di poter ancora contare qualcosa a livello politico e la paura delle reazione dei tedeschi. Il potere era in realtà allo sbando: in quei convulsi giorni gli uomini dovevano sostanzialmente improvvisare a causa della mancanza di direttive e di collegamenti efficaci. In realtà il Re e Badoglio scelsero il modo peggiore per dimostrare agli italiani ed al mondo di che pasta fossero fatti. Bisogna anche ricordare che molti di quegli uomini, troppo compromessi col fascismo, cercavano attraverso la furbizia ed il doppiogiochismo di ricostruirsi una sorta di verginità nei confronti degli alleati. Questi in realtà erano molto più interessati alle infrastrutture italiane ancora in essere e che potevano essere utilizzate a fini bellici piuttosto che ad avere rapporti con gli italiani. Non smisero mai di considerarci un popolo sconfitto: il 29 settembre sulla corazzata Nelson, al largo dell'isola di Malta, Badoglio ed Eisenhower siglarono il cosiddetto “armistizio lungo”. Di fatto si trattava della ratifica della resa senza condizioni dell’Italia.  A tal proposito giova ricordare che il documento, “condizioni aggiuntive di armistizio con l’Italia” nella nostra lingua, in inglese si intitola “Instrument of surrender of Italy”. L’Italia si arrendeva consegnandosi alle Nazioni Unite e sarebbe stato considerato da lì in avanti come paese sconfitto.

Il pressappochismo, la superficialità, la presunzione e l’inconsistenza della classe politica di allora, aprirono le porte non già alla conclusione delle ostilità, ma alla stagione della guerra civile e delle vessazioni da parte dei tedeschi nei confronti del nostro paese. Nomi quali Cefalonia, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema hanno ancora oggi una valenza sinistra.

Editto di Milano: ricorre quest’anno il 1700° anniversario

Parlare dell’Imperatore Costantino è cosa assai ardua. Per il tempo trascorso, per la scarsezza delle fonti e per il salto di mentalità che si rende necessario al fine di inquadrare il personaggio nell’ottica del proprio tempo.
Poche, giova ribadirlo, le fonti disponibili: Lattanzio, Eusebio, da parte cristiana, e Zosimo, da parte della tradizione greco-romana, che, per la precisione, non si può chiamare “pagana”. Il paganesimo infatti verrà dopo Costantino, quando, avendo il Cristianesimo conquistato le città -  si dovrebbe riflettere a lungo sulla relazione fra “civitas” e Cristianesimo – le campagne rimasero legate ai riti ancestrali e, dunque, “pagane”, da “pagus”, che vuol dire villaggio. Lo studio delle fonti originali sempre induce a “sfumare” i giudizi. Un evento, nel suo fieri, è spesso molto diverso da come apparirà di seguito. La storia si appropria degli eventi e li riusa in un quadro posteriore, che spesse volte non è il “quadro di riferimento mentale” che ha dato origine a quello stesso evento. La cosa difficile sta sempre nel cercare di reinserire un evento storico nel suo quadro e nella sua epoca. Questo per noi oggi è molto difficile, poiché viviamo nel tempo irreale del cosiddetto “tempo reale”, ovvero viviamo nella falsa compresenza di tutti gli eventi storici con tutti gli altri eventi storici: così si perde di vista la successione degli eventi stessi. Ma è la successione che ha dato senso agli eventi. In altre parole, che siano avvenuti in un certo dato ordine piuttosto che in un altro ordine di successione non è affatto indifferente al cercare di capire le ragioni per le quali le cose sono andate in un certo modo piuttosto che in un altro. Tutto è compresente perché possiamo accedere a delle informazioni: ma le informazioni non danno di per se stesse la comprensione, se non le si reinserisce nel quadro che ha dato loro senso e vita. E questo secondo lavoro è ben più difficile rispetto al primo. In effetti, compito dello storico dovrebbe essere quello di almeno tentare di spiegare gli eventi e soprattutto le ragioni per le quali gli eventi sono andati in un certo modo, piuttosto che meramente collazionarli.
La questione di Costantino è spinosa perché la leggenda posteriore si è impadronita di lui, facendolo diventare ciò che non poteva essere, nel bene come nel male: sia la leggenda bianca che la leggenda nera a suo riguardo non reggono, rispetto ai dati storici. Le fonti non è che siano tantissime: dobbiamo rassegnarci al fatto che di tanti eventi fondamentali abbiamo poche fonti, ancor oggi è così, la differenza oggi è che avremo sin troppo di poche cose, delle cose più note; per esempio, chissà quanti turisti faranno foto al Colosseo, ma Roma è piena di tanti altri monumenti cosiddetti “minori” che chissà, magari in futuro potrebbero fornire informazioni utili. Nulla è più facile che si perda che la memoria.
Come prima cosa, va detto che l’Editto non è tale: un Editto, difatti, aveva delle precise caratteristiche ed andava riportato su carta o pergamena, mentre noi ne abbiamo solo l’attestazione in Lattanzio ed Eusebio. Per la precisione, fu un Trattato, un Accordo fra Costantino, dominatore dell’Occidente, e Licinio, dominatore dell’Oriente, che conferiva al Cristianesimo lo status legale di religio licita, ovvero pubblicamente praticabile. Va precisato che il mondo romano è quello che ha diffuso la differenza fra pratica religiosa pubblica e pratica religiosa privata. Per accedere alle magistrature era necessario praticare i riti “civili”, cioè della “civitas” Roma, qualunque cosa uno credesse in sede privata. Con l’Impero, ai classici riti della città di Roma, che accolse tanti culti, ma nessuno dei culti accolti consentiva l’accesso alle magistrature (è importante sottolinearlo), si era aggiunto il culto imperiale: ed era con quest’ultimo che, in modo particolare, i cristiani avevano dei problemi e, in conseguenza del loro rifiuto di partecipare a detto culto, i cristiani tendevano ad esser esclusi dall’arena pubblica.
Si sono ripercorsi, sempre brevemente, i fatti: la visione del 312, che fu in effetti un sogno, secondo Lattanzio, che scrive poco dopo; quanto ad Eusebio, questi ne dà invece quella versione famosa di evento pubblico a tutti visibile. Solo che Eusebio scrive una ventina di anni dopo gli eventi, e raccoglie le confidenze dell’Imperatore romano ormai al termine della sua vita, ormai vicino davvero al Cristianesimo (Costantino morirà nel 337): ma il Costantino della fine non era il Costantino del 312. Il Costantino del 312 e del cosiddetto Editto di Milano del 313 di certo non era in quel momento cristiano. Tra l’altro, la visione del 312, in sogno, è molto simile a quella che lo stesso Costantino ebbe nel 310 nelle Gallie, solo che gli apparì il dio Apollo.
Costantino ebbe un’intuizione, quella dell’unitarietà e della forza dell’emergente religione cristiana e che occorresse una politica di amicizia e persino vicinanza con essa, ma è difficile che comprese davvero le conseguenze del suo atto, e non perché fosse persona senza cultura, ma perché la sua cultura era romana e greca, non ebraica. Per lui, alla fin fine, contava “il dio più forte” e il “dio cui dovesse votarsi l’Impero” acciocché questo stesso dio proteggesse l’Impero, e questo indipendentemente da cosa lui, Costantino, “davvero” pensasse. Senza dubbio, con l’andare del tempo, favorì sempre di più i cristiani, nessun dubbio al riguardo, ma, nel contempo, compì molti atti contraddittori, che si sono brevemente ricordati nel corso della Conversazione, un po’ troppi perché fossero semplicemente un tentativo di non scandalizzare un mondo in cui i cristiani erano una forte e presente minoranza, tuttavia pur sempre minoranza. Salvo proiettare in quell’epoca modi di pensare di epoche posteriori, e compiere un atto antistorico, oggi molto comune - ma questo non lo giustifica -, dobbiamo pensare che questo suo comportamento, che oggi ci sembrerebbe “contraddittorio”, corrispondesse alla mentalità che Costantino aveva: E cioè voleva unificare un Impero diviso, dove l’unitaria minoranza dei cristiani poteva fornire un contributo determinante, ma non unico. Questo sembrerebbe poter dedursi dagli eventi e dalle azioni di Costantino stesso.
Ed ecco il Concilio di Nicea, che non fu affatto indetto “per stabilire il Canone”, come ancora si legge da qualche parte – il processo di elaborazione del Canone cristiano sarebbe proseguito ben oltre Costantino -, ma perché vi fosse un Credo comune a tutti i cristiani. Costantino insomma parrebbe credesse che quest’unitarietà, che i cristiani avevano come organizzazione, si potesse tradurre ipso facto in un Credo unitario. Come si sa, il Concilio di Nicea del 20 maggio 325 finì con la cacciata e l’anatema degli ariani: iniziava il pesante intervento statale nelle cose religiose, che è il sostrato negativo nato da Costantino e che solo il Vaticano II ha cambiato nella Chiesa cattolica, pur tra mille giravolte e tante indecisioni. Va detto che iniziava soltanto, perché dobbiamo attendere Teodosio I il Grande (347-395) per vedere bandito il culto pubblico “pagano”, privatamente non vi era l’interdetto, e per vedere bandito ogni altro culto diverso da quello cristiano si dovrà attendere Giustiniano (482-565). Son passati dei secoli da Costantino. Di solito non si bada a queste cose. Tutto avviene in un clic, e secoli passano come bruscolini. Beh, le cose non funzionano così.
Era un mondo in crisi, era un mondo sempre più accentrato: cresceva quel fenomeno che in Bisanzio avrebbe toccato il culmine, cioè l’Imperatore era separato dal popolo, viveva come un monarca orientale, chi accedeva a lui poteva influenzarlo. Costantino ancora non è così, Giustiniano già lo è. Quel mondo in crisi, tuttavia, non sfugge a nessuno che vi presenti profondi echi di somiglianza con il nostro mondo attuale. Costantino sembra profondamente moderno proprio per questo motivo.
Tornando all’Editto di Milano, esso non rappresenta la “libertà religiosa” come conoscono e  concepiscono i moderni, ed accettata dalla Chiesa cattolica dal Vaticano II, esso è governato da una idea molto più antica: quella della divinità che protegge lo Stato, indipendentemente da ciò che un individuo possa credere. Si tratta di una idea molto antica, che conosciamo in ambito semitico, ma pure in Asia orientale: il culto di Confucio era un culto statale in tal senso, ed aveva poco a che spartire con le credenze individuali, si era infatti tenuti a parteciparvi che vi si credesse o non. Parlare di “libertà religiosa” a riguardo dell’Editto di Milano non ha, dunque, molto senso, ed è cosa piuttosto antistorica, il che non significa che la vicenda Costantino non abbia dei profondi riverberi ed accenti di modernità: è vero infatti l’opposto, ma sono altri gli accenti di strettissima attualità di quella vicenda fatidica, come si è cercato di dire.
Quanto a Costantino, fu un uomo a metà fra due epoche: non fu né Marc’Aurelio né Giustinano, ma ebbe degli aspetti che potrebbero ricordare ambedue, senza però un profilo così definito. Non fu il primo “imperatore cristiano” che, anche iconograficamente, era di là da venire, né fu più però la vecchia figura imperiale, non fu Adriano, per intenderci. Fu un uomo fra due epoche, con degli aspetti del passato e di ciò che sarà, ma indistinti, non ben delineati ancora. Questo, però, è proprio delle epoche di passaggio, come la nostra. Di qui l’attualità della figura, del Costantino che emerge dalle fonti e dai fatti, non quello costruito dalle leggende posteriori che, tra l’altro, avevano anche come scopo quello di giustificare la cosiddetta “Donazione” di Costantino, che si sa essere un falso. Tra l’altro, Dante, se nella Commedia attribuisce la Donazione, che considera vera, ad una sorta d’idealismo mal diretto di Costantino, che voleva far cosa buona ma che si sarebbe tradotta in un eccesso di privilegio conferito alla Chiesa di Roma, nella Monarchia esprime dubbi sulla sua veridicità: quindi dubbi su di esso erano presenti già nel Medioevo. Questo fu tra le cause dell’accusa di eresia verso il De Monarchia dantesco, nel 1329. Fu poi posto nell’Index Librorum prohibitorum nel 1559, ma ne fu tolto già nel 1564; infine nel 1929 Benedetto XV dichiarava Dante un esempio per tutti gli uomini. Dalla prima data (1329) al 1929 sarebbero trascorsi seicento anni, ed è chiaro che non era di certo la Commedia ad essere il problema, ma la Monarchia, che poneva stretti limiti al potere temporale della Chiesa e dei papi di Roma. Alla fine la cosa si sarebbe risolta, ma dopo tanti secoli.
Il problema politico è sempre stato cruciale nel Cristianesimo, in un modo o nell’altro, il che ha il suo senso in una religione che fa della “civitas” il suo centro. Il famigerato Index infine sarebbe stato eliminato da Paolo VI, ed è una cosa della quale tanti gli sarebbero debitori: un regno sottovalutato, quello di Paolo VI.
Per finire: la storia mostra come il cambiamento di correnti, ovvero il mutamento della bilancia, con il prevalere definitivo di un gruppo su di un altro, non è questione di secoli: avviene in un momento. E le cose sarebbero potute essere ben diverse, se solo gli eventi fossero avvenuti diversamente in certi “snodi” decisivi: pochi riflettono su questo.
Sullo sfondo vi è la questione teologica, dove in effetti Costantino si affidava ai suoi consiglieri, soprattutto Osio di Cordova – che secondo alcune fonti sarebbe stato però di Alessandria d’Egitto – e, soprattutto, il problema del passaggio da una visione cosmocentrica ad una antropocentrica, problema che va ben al di là della vicenda costantiniana. Quel che si può dire, rimanendo strettamente attinenti al tema in questione, è che il cambiamento iniziò ben prima di Costantino e si completò molto ma molto dopo di lui, con il Rinascimento, giusto un po’ di tempo dopo, ma giusto un poco... I cambiamenti di “visione del mondo” (weltanschauung) sono ben più lunghi e complessi di quelli di forma politica o economica. In linea generale, le visioni del mondo hanno un momento inerziale molto più potente dei problemi di forma politica. Paradossale a dirsi o ad osservarsi, ma la mente è ben più inerziale del corpo.
Costantino si affidava ai suoi consiglieri su questi temi non perché fosse poco colto, oltre ad essere un validissimo combattente ed un astuto stratega, era persona colta ed aveva studiato alla corte di Diocleziano, ma perché il suo “retroterra (background) culturale”, come si dice oggi, era squisitamente greco-romano, non conosceva davvero le Scritture cristiane né aveva una vera conoscenza del mondo ebraico e del suo modo di pensare. Occorre ribadire che la sua cultura di fondo era quella sostanzialmente quella classica.
Andrea Ianniello

giovedì 1 agosto 2013

Il fenomeno dei privatisti

È un dato di fatto: per conseguire la patente di guida, sempre più candidati scelgono il metodo “fai da te” piuttosto che appoggiarsi agli operatori professionali.
Viaggiando su Internet capita spesso di imbattersi in siti che propongono la “via del privatista”; i vantaggi apparenti sono evidenti dal punto di vista economico. Paradossalmente (ma forse non più di tanto) in nessuno di questi siti ci si sofferma sul fattore sicurezza stradale, che dovrebbe essere alla base dell’attività di formazione dei nuovi conducenti. Anzi, i commenti sono spesso del tenore: “Costringere a fare le guide presso una scuola guida è una PORCATA! UN'ESTORSIONE!!! Io tutte le patenti che ho conseguito A B e C tutte da autodidatta tutte da privatista senza pagare alcuna TANGENTE!!!” (http://www.nuvolari.tv/scuola-guida/patente-da-privatista).
Ma perché si è giunti a questo punto?
Perché in Italia, unico paese dell’Europa cosiddetta evoluta, in tema di educazione stradale affidarsi ai professionisti è considerato superfluo?
Limitarsi ad inveire contro i privatisti e contro coloro che li aiutano oppure scaricare la responsabilità sul “caso”, sulla “sfiga”, sulla “crisi” (la quale, a onor del vero, riducendo drasticamente le possibilità economiche delle famiglie qualche responsabilità la ha) o su qualsiasi altro fattore esterno, così come rimanere in trepida attesa di un aiuto taumaturgico dall’alto senza fare né un minimo di autocritica né un’analisi della situazione, è segno di profonda sofferenza e superficialità.
I privatisti esistono ed esisteranno sempre; sono inoltre una fetta di mercato assolutamente incompatibile con l’attività di autoscuola. Nel senso che al privatista, convinto come è delle proprie capacità, non interessa la formazione offerta dalla scuola guida, per cui ben difficilmente ne diventerà cliente. A meno che …
Mezzo secolo di gestione sciagurata della sicurezza stradale da parte della politica, degli operatori del settore e delle loro associazione di categoria, ha creato le migliori condizioni affinché il pubblico guardasse con sempre maggior sospetto alla nostra attività.
Vista da fuori: come dar loro torto?
Un serio approccio al problema non può prescindere da una profonda riforma dell’apparato burocratico con cui viene gestito il conseguimento delle patenti. Procedure lente e macchinose, esasperazione dei controlli, eccessiva quantità di carta, non rendono molto differente rispetto a trent’anni fa l’iter istituzionale. È vero che sono state introdotte migliorie e più di qualche procedura è stata informatizzata, ma il livello tecnologico appare largamente inferiore a quello che richiederebbe un mondo che ormai funziona quasi tutto via internet. Per non parlare poi delle verifiche che sottendono ai corsi paralleli a quelli relativi al conseguimento della patente (corso recupero punti, corsi CQC ecc.). Qui la resa delle istituzioni è totale: tutto viene scaricato sul soggetto erogatore. Questi deve sottoporre ogni movimento all’approvazione dell’organo istituzionale ed ogni modifica deve essere comunicata… in attesa di un controllo che molto spesso non può arrivare per mancanza di mezzi e personale. Questo percorso stressante è evidentemente il risultato dei numerosi e ripetuti abusi che hanno segnato l’attività di più di un operatore del settore. Si può dire che non passi settimana senza che qualche non salti fuori una notizia relativa a compravendita di patenti, falsi corsi per recupero punti o per il rinnovo della CQC o altre amenità del genere. La realtà è che i livelli di corruzione e di malaffare sono ormai talmente diffusi e capillari da rendere i controlli perfettamente inutili. Se non ci sono educazione e senso civico (e da noi sono abbondantemente latitanti), se la prevenzione nei confronti dell’abuso è lasciata al buon cuore dei singoli soggetti, non si può pretendere che sia il sistema repressivo a sistemare le cose, neanche col ricorso allo Stato di Polizia!
Altra nota dolente: gli esami per il conseguimento.
Prima del 19 gennaio 2013, acquisire la patente B era legato ad un esame decisamente troppo semplice e non in linea coi tempi. La struttura della prova era simile a quella in essere negli anni ’80, malgrado in trent’anni siano profondamente cambiati sia i veicoli, sia il loro numero sia l’approccio dei conducenti con la circolazione. La maggior o minore severità di giudizio era sostanzialmente lasciata nelle mani del funzionario delegato. Il quale si trovava peraltro a dover esaminare 8 candidati in un tempo definito e breve.
Risultato: durata della prova spesso insufficiente per poter formulare un verdetto  significativo.
Le autoscuole in questa situazione hanno abbondantemente sguazzato. È francamente mortificante sentirsi fare i complimenti perché “lei non cerca mai di imbrogliare toccando i pedali”. Lo è perché è indice di una diffusa mentalità da parte di “colleghi” volta ad una preparazione superficiale ed approssimativa senza nessun riguardo per le conseguenze che ciò può avere. Ed è ancor più mortificante in quanto indice concreto della diffusione dell’abuso.
È evidente come per un’autoscuola “produrre” patentati in serie scarsamente preparati e, magari, licenziati con l’aiutino sottobanco (la toccatina ai pedali, piuttosto che il segno convenzionale) sia molto meno faticoso e più remunerativo che sudare le classiche sette camicie per formare un allievo!
Fortunatamente la nuova normativa ha introdotto l’obbligo di formazione iniziale e periodica per gli operatori del settore, competenze minime e formazione continua per gli esaminatori (allegato IV D.L. 59/2011). Tutto ciò potrà però dare frutti concreti solo col tempo.
Sull’operato delle Organizzazioni di Categoria più di qualche perplessità è legittima. La loro azione appare soprattutto volta all’autopreservazione ed alla tutela di una realtà palesemente sorpassata.
La norma volta ad obbligare tutti ad attrezzarsi per il conseguimento di patenti di qualsiasi categoria ha definitivamente fatto “tabula rasa” della passione artigiana che è alla base dell’attività di educazione stradale. E’ difficile che a livello didattico pratico ci sia una differente impostazione tra il conseguimento della patente A, quello della B e delle cosiddette “superiori”. Eppure una moto ha un comportamento dinamico diverso rispetto ad un camion, frena in modo niente affatto simile ecc.
L’introduzione delle sei ore di guida obbligatorie, lungi dall’essere una vittoria, nel sentire comune spesso si trasforma nella “tangente” in più da pagare all’autoscuola. Viene inoltre da chiedersi: chi mai è riuscito ad imparare a guidare in solo sei ore?
Lo stesso concetto di “Guida Accompagnata” è stato stravolto rispetto ai francesi. Là è il professionista che aiuta la famiglia attraverso formazione continua (le ore obbligatorie sono venti) e feedback periodici; qui da noi il compito della docenza è relegato alla famiglia che “si aiuta un po’ ” con l’autoscuola!
A onor del vero, le organizzazioni di categoria si sono anche rese promotrici di iniziative di indubbio valore, quali ad esempio la diffusione dell’educazione stradale nelle scuole superiori o la promozione stessa della guida accompagnata. A tal proposito è utile leggere la relazione svolta a suo tempo di fronte ai rappresentanti della camera dei deputati dall’allora Presidente della CONFEDERTAAI Giorgio Schiavo (http://leg16.camera.it/470?stenog=/_dati/leg16/lavori/stencomm/09/indag/circolazione/2009/0226&pagina=s010) per avere la certezza che la categoria non è composta solo da personaggi “coloriti” ma anche da professionisti validi e con delle ottime idee. Peccato che in fase di attuazione, si siano ritrovati ben pochi dei concetti espressi da Schiavo e che il processo di formazione di “Guida Accompagnata” sia diventato quello che è!

In conclusione: se vi è una diffusa mentalità che porta un ragazzo che ha bisogno di curarsi dal medico e lo stesso che deve imparare a guidare da papà, ciò è il frutto di un processo lungo ed elaborato. Troppa indifferenza verso il problema della circolazione stradale, troppa superficialità nel rilascio della patente e troppa approssimazione nella preparazione dei neoconducenti, hanno portato il pubblico a guardare con estrema diffidenza verso il mondo delle autoscuole. Le quali, dal canto loro, non è che si siano sforzate più di tanto per migliorare le propria immagine!

mercoledì 19 giugno 2013

Il problema della tradizione demolita

In effetti, “l’accumularsi della tradizione” è alla radice di ogni sviluppo culturale. Cultura e tradizione sono legate a doppio filo. Far parte di una cultura significa, in effetti, far parte di una determinata tradizione culturale. Se ne può esser parte direttamente o solo indirettamente, di riflesso, questo è vero. Oggi, però, abbiamo individui, ed in ogni parte del mondo, che non sono parte, neppure indirettamente, di una qualsiasi tradizione culturale. Le reazioni violente, senza scopo apparente, nascono da coloro i quali, sentendo rabbia, anche forse per giustissime ragioni, sono del tutto incapaci di esprimerlo nei termini di una tradizione culturale qualsiasi, per quanto magari compresa solo alla lontana ed indirettamente. Non possono, allora, che esprimere in modo rozzo e bruto lo stato che sentono. Oggi abbiamo movimenti, ma di solo corpo, senza testa. Non può che agire così chi, ormai, non ha più storia. Il problema della tradizione demolita, in effetti, è oggi da ricollegarsi ad un altro problema, esploso negli ultimi tempi: la distruzione della storia. I due fenomeni sono ricollegabili direttamente.
Anche qui, non si è raggiunto il culmine in due giorni. Prima la tradizione è stata posta in questione, poi la si è distrutta con la globalizzazione. Il capitalismo nella fase della globalizzazione è stato il più potente distruttore di tradizioni della storia, altro che comunismo! Ma è passato per “liberatore”, qui è stato il gioco delle tre carte! Prima della fine del secolo XVIII e del XIX secolo poteva esistere la fine di una tradizione, la lotta di una tradizione culturale contro l’altra, con la conseguente distruzione di quella soccombente, ma mai si trattava di distruzione “della” tradizione tout court, integralmente, “in quanto tale”, fuori da un’altra aggettivazione che la faccia comprendere, tipo tradizione giudeo-cristiana o d’altro genere. Si parla di lotta fra tradizione e modernità solo da quell’epoca, che, però, come si è detto, è quella del capitalismo nella sua fase precedente alla globalizzazione. La globalizzazione è l’epoca nella quale la lotta si è definitivamente conclusa con la vittoria della modernità. Ma, ed ecco la risultante, questa vittoria crea un vuoto e viene riempita da ciò che si reputa, nel mondo moderno stesso!, debba essere o fosse la tradizione. Si tratta di una tradizione come vista oggi, il taglio rispetto alla storia impedisce di vedere le cose come sono. Ma l’effetto finale, allora, sarà una sorta di ibridazione. Le forme tradizionali, quindi, possono sussistere, ma sostanzialmente in una forma “mista” con la modernità, un “ibrido” tradizione/modernità. E un ibrido non può avere l’autorevolezza del passato, né la sua forza. Quest’ibrido alla fin fine è impotente, come il mulo, frutto dell’unione fra asino e cavallo, ma il mulo non dà altri muli! Da un mulo non hai un altro mulo. Il che rimette in moto il ciclo distruttivo, se quest’ibrido non si fa forte della radici storiche e non cerca di ricollegarvisi, fuori dal gioco di specchi moderni. Ma è molto più difficile di quel che si creda.
Il richiamarsi al discorso “identitario” è inutile o ben poco utile, a tal proposito. Infatti, l’identità è un fenomeno non solo complesso ed articolato, ma mutevole nel tempo, capace di adattamenti, cambiamenti, evoluzioni, arretramenti, modifiche, pur rimanendo l’identità se stessa. E’ tale capacità di cambiare rimanendo se stessi che testimonia di un nucleo “identitario”, nucleo che l’Occidente ha perso, qualsiasi cosa vengano a dirci sulla pretesa identità, quali che siano i voli pindarici detti a tale scopo. Un’identità vera, seria, non isterica – l’isterismo denota sempre un’identità debole – è in realtà una composizione di tradizioni culturali diverse. L’identità occidentale si compone di varie correnti tradizionali, così quella cinese, indù o altro.
A questo punto, occorre andare avanti nel nostro discorso ponendosi due domande: 1) Che cosa c’è nel capitalismo nella fase della globalizzazione che gli fa combattere ogni forma di tradizione, in quanto tale, qualsiasi essa sia; 2) Se la tradizione sia solo un oggetto storico o rifletta dell’altro.
Il primo punto è d’importanza decisiva. Il capitalismo distrugge ogni tradizione perché è un agente di uniformizzazione. Per il capitalismo c’è un solo “imperativo categorico”, il resto è questione di gusti soggettivi, tutti fasulli. Dunque l’atteggiarsi del capitalismo a “difensore della libertà religiosa” fa solo ridere riguardo all’ingenuità di chi gli ha creduto. Dunque, ogni cosa che sia diversa da quest’imperativo occorre cercare di ridurre alla stessa forma. I modelli si sono ridotti nel corso del tempo, ed allo stesso modo le varietà delle culture. Questa riduzione, quest’impoverimento ed uniformizzazione hanno, però, costruito una sorta di “bomba culturale” nelle menti umane: l’assenza di senso, di direzione, di uno scopo nella vita. E questa è, e sarà, la grande questione culturale dei tempi attuali e futuri prossimi. E’ ciò che taluno ha convenuto chiamare il “nichilismo” realizzato. Non è che “non ci sono valori”, ce n’è una profusione, ognuno piccolo ed impotente, che abbaia contro la Luna, e tutti sottomessi all’unico disvalore.
Riguardo al punto due, si può pensare, con Guénon, che nelle origini delle forme tradizionali vi sia sempre un elemento che non si può ridurre all’umano, al solo umano, per lo meno. Vi è qualcosa che sfugge, qualcosa d’inspiegabile, qualcosa che può esser che inevitabilmente trascenda la mera dimensione umana. Tutti quelli che hanno distrutto le forme tradizionali, forse, non avevano come scopo distruggere questa o quella, per dei motivi immediati, ma, in realtà, odiavano questa stessa dimensione “X”, chiamiamola così, perché qui non interessa definirla, qui c’interessa solo evidenziare la possibilità della sua esistenza. Perché, in tal caso, molte caso avrebbero senso, molte cose sarebbe possibile spiegarle.
Attenzione al grandissimo errore. Quasi tutti quelli che vedono questa sorta di lotta tra mondo moderno e  tradizione, sostengono spesso che il capitalismo, che è stato la punta di diamante in questa lotta senza quartiere, abbia compiuto tutto ciò per una causa economica. Nulla di più errato! Il primato dell’economico su ogni lato della vita umana è il frutto del sistema dominante, e cioè si tratta di un portato storico e culturale, non di un dato “naturale” della storia umana, che, anzi, ci dimostra che il primato dell’economico è caratteristica delle età ultime, stanche, finali. Dunque come poteva essere che l’azione di quel sistema, il cui scopo era di imporre queste determinate caratteristiche culturali, presupponesse, per agire, l’esistenza già in atto di quelle stesse caratteristiche culturali?! Non può essere. Lo scopo era imporle. E sono state imposte a causa di tutta una serie di fattori e forze, ma quello era lo scopo.
Oggi, come si è detto, siamo nella fase della globalizzazione, nella sua fase finale, quando il mondo globalizzato, non potendo più espandere la sua forza, inizia inevitabilmente a collassare su se stesso in un processo che vediamo sotto i nostri occhi. Abbiam visto che ciò che oggi possiamo constatare storicamente non sono forme “pure”, ma ibridi, di fatto.
Che fare, dunque? Da un lato, bisogna essere consapevoli del fatto che sono ibridi e, dall’altro, che solo ibridi oggi possiamo avere. Il che non significa che non vi sia la necessità di cercare più oltre, all’indietro e all’avanti. E’ vero l’opposto, non cercheremo però più di risolvere un problema nei suoi stessi termini, ma cercheremo di andare oltre.
Quanto all’implosione sistemica, essa nasce da cause interne. Sebbene la cosa ci riguardi personalmente e per quanto non possiamo non viverla, se avremo compiuto il “passo fatale”[1] del cambiamento di prospettiva, non avremo dubbi, anche qui, che occorra inevitabilmente “andare oltre”, ancora e di nuovo.
Andrea Ianniello






[1]            Si narra che un re goto, per impedire al suo popolo di voler tornare indietro, nel passare un ponte su di un grosso dirupo, dopo distrusse il ponte stesso. La fonte è Jordanes: Storia dei Goti, Tea Storia, 1999.

Incontro Familismo italiano e familismo cinese

Si è recentemente svolto nei pressi di Caserta un incontro su “Familismo italiano e familismo cinese”. L’Europa oggi è problematica, non tanto per l’Euro in se stesso, ma perché non vi è un’idea comune d’unità europea e tale assenza ha riportato in auge i classici, mai morti davvero, nazionalismi europei.
La debolezza dell’Italia, precipitata in tale situazione europea, è però più antica, storica. Una delle sue classiche pecche è il “familismo amorale”, parola che Putnam ha diffuso, pur non essendone l’inventore, che fu Banfield nel 1954, in una ricerca significativamente svolta su di un piccolo paese della Basilicata. Il “familismo” è dare la maggior importanza possibile agli interessi del proprio gruppo, considerato come separato da ogni altro gruppo simile, ed è detto “amorale” non perché “immorale”, ma perché non riconosce altro valore di riferimento se non il rafforzamento del proprio gruppo.
Quanto a Putnam, la sua ricerca è di venti anni fa, ed è importante rifletterci dopo venti lunghi anni, che hanno visto l’irreversibile disastroso declino di un’intera nazione.
Il libro è: Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori settembre 1993. Esso dimostra come il “capitale sociale”, vale a dire la capacità di porsi assieme per uno scopo comune, sia molto basso nel Sud d’Italia. La causa profonda, sosteneva Putnam, sta nel passato: quando il Regno normanno-svevo scelse una politica di accentramento, mentre il Nord Italia, e parte del Centro, prendevano la via dello sviluppo comunale.
Quel che sostiene Putnam non è falso, ma parziale, e soprattutto deve essere rivisto di fronte al naufragio dell’Italia intera, e, in tale naufragio, il ruolo del Sud è stato lo stesso che nella fase dell’edificazione del successo: il mero comprimario.
Il problema è che tale scarso capitale sociale non si ritrova nelle regioni italiane derivate dallo Stato pontificio. Nel corso dell’incontro è stato proposto un cambiamento di quello schema interpretativo, pur nel mantenimento di certe cose giustissime che Putnam sosteneva. Si è, inoltre, trattato en passant anche di tanti altri temi.
Che cosa c’entra il “familismo cinese”? Esso è praticamente similissimo a quello italiano, con la grande differenza che non è “amorale”, ovvero esiste in quel paese, un valore superiore agli interessi dei gruppi “familistici”, in nome del quale puoi fare qualcosa, al di là degli interessi “particolaristici” dei vari gruppi stessi. In Italia, invece, solo l’emergenza costituisce l’unico e solo strumento per imporre un cambiamento condiviso in una società non in tutti i casi, ma nella maggior parte, divisa in gruppi chiusi.
La differenza, rispetto a vent’anni fa, è che oggi non possiamo più pensare che sia il solo Sud a seguire il familismo amorale: no, è l’Italia tutta ad essere così.
Andrea A. Ianniello

domenica 2 giugno 2013

Qualche riflessione sull'etimologia del nome "Caserta"


Riceviamo e pubblichiamo volentieri




E’ stato recentemente pubblicato l’ultimo numero dei Quaderni Campano-sannitici, vol. XI del gennaio 2013 (collegato alle Giornate in onore di G. Tescione), dedicato alla Bolla di Senne (o Sennete), che “segna”, per così dire, la Diocesi di Caserta. I Quaderni, va detto, sono un importante contributo interdisciplinare, nel senso che, concentrandosi sulla Bolla di Senne, in realtà spaziano su vari temi e da differenti angoli visuali. Qui ci si concentrerà sul contributo di D. Caiazza intitolato: “Nomi e paesaggio nella Bolla di Senne”, e, in tale articolo, ci si concentrerà sul tema che qui più interessa: l’etimologia del nome di Caserta. Due annotazioni, tuttavia, vanno fatte: che la Diocesi di Caserta iniziasse nel XII sec. (l’epoca della Bolla) e che, quindi, la relazione con Calatia e Sant’Augusto fosse una tarda rielaborazione (del XIX secolo probabilmente) era già ben noto e dunque qui nessuna novità di sorta (cfr.: Dizionario Storico delle Diocesi. Campania, a cura di S. Tanzarella, L’Epos editrice 2010, pp. 256-280).
Veniamo subito in medias res, all’etimo del termine Caserta. Caiazza considera l’etimo di Caserta, derivante da Casa “irta” sul colle, come una costruzione tarda e colta, il che può anche starci, ma, se non vogliamo far derivare “irto” da “erto”, dobbiamo pur fare riferimento ad altra etimologia; Caserta è “erta”, infatti, solo vedendola dal piano, ma su, in collina, è un posto piatto, adatto agli armenti. Inoltre, rifiuta l’origine mista, di radice germanica e romanza, del termine Caserta, cui però dà un qualche rilievo in relazione alla probabile radice precisamente romanza e germanica, mista cioè, che lui rileva in altre località dal nome di Caserta o “Caserte”. Lui fa derivare questa probabile origine mista da cas-bert, quando è assai più probabile che, scegliendo una tale origine, sia da cas-hert (o heard), ovvero la casa del gregge. Secondo Caiazza, Caserta deriva da “casirat” in un documento notarile del 1149 siglato da Nicola Frainella (D. Caiazza, “Nomi e paesaggio nella Bolla di Senne”, Quaderni Campano-sanniti vol. XI 2013, p. 30), e, poi, per un fenomeno linguistico, la finale “-at” sarebbe divenuta “-ta”. Ma sarebbe potuto essere perfettamente un errore di scrittura, nient’affatto infrequente nei documenti notarili. Con i condizionali, non c’è mai fine. Ora, il punto è che Caiazza accetta sì la possibilità di origine mista per tutte le altre località chiamate “Caserta” o “Caserte” o simili, tranne la Caserta città (Caserta “vecchia” di oggi) sostenendo che nessuna di queste altre località è divenuta città e son tutte rimaste “recinto chiuso e fortificato per ricovero armenti”, come l’etimologia di casbert/cashert attesta e significa.
Ora però, se si legge Erchemperto, si scopre che i Longobardi di Capua, rissosissimi, i quali fondarono Caserta come città, si recarono sulla collina dove già vi era una località Caserta (cfr. D. A. Ianniello, Tre momenti storici della Civitas Casertana, Quaderni Associazione Biblioteca del Seminario Civitas Casertana 1999, p. 120 e sgg., il quale, a sua volta, fa riferimento a Erchemperto, Storia dei Longobardi, Salerno 1985, nn. 28, 30 e 40 in part.). Nel trattare delle etimologia, chiaramente longobarde, di Sala e Aldifreda, sul piano, Caiazza giustamente rileva che il movimento è stato dal piano alla collina. Per Sala accetta l’etimo longobardo, per Aldifreda invece un etimo… franco! Quello più accettato, ma che nasce da una profonda incomprensione dell’epoca delle cosiddette “invasioni barbariche” e dei Regni romano-barbarici che, tra l’altro, batterono certamente moneta, diversamente da come taluno ha detto in una recente trasmissione radiofonica. Si precisa che tali etimi longobardi si ritrovano in un mare di etimi di origine latina, importante questo punto. Ora, Sala era una forma di organizzazione della produzione, dove il “sala” era il luogo dove si versavano i tributi da parte dei tertiatores (coloni che dovevano al loro signore la terza parte dei frutti del fondo coltivato) della terra ai loro signori longobardi. Ed Aldifreda quindi deriverebbe dal franco Ala, tutto, e frith, pace, abbondanza, sarebbe come Alfredo. Questo è estremamente improbabile perché significa che dei Franchi si mescolarono a dei Longobardi, il che, a sua volta, sarebbe attribuire loro quella “poli-etnicità” della quale i Normanni furono portatori, perché fra loro sì che c’erano cavalieri di differenti etnie. Ma siamo in un’epoca molto ma molto diversa da quella longobarda, inoltre i Normanni furono una classe dirigente, i Longobardi furono invece una delle poche invasioni barbariche che s’insediarono davvero in Italia e la modificarono. L’assenza di classe dirigente in Italia, spesso di origine straniera o facente riferimento a potentati stranieri, è infatti un male profondo ed antico dell’Italia, con l’eccezione dello Stato della Chiesa, che è stato storicamente tra i pochissimi stati della penisola ad avere una qualche forma di classe dirigente, piaccia o non questo fatto. I Longobardi non solo non stavano lì a mescolarsi con i Franchi, ma spesso furono loro acerrimi nemici. Con un interessante relitto di riduttivismo scientista, nel dibattito alla presentazione Rivista alla Libreria Feltrinelli (in Via Corso Trieste), si è sostenuto che è un falso l’attribuzione del nome Aldifreda ad una inesistente principessa longobarda Freda. Verissimo, ma che c’entra con l’etimologia del nome? Nulla. Infatti, tali attribuzione eponime spesso si ritrovano quando si è persa l’origine del nome. Quindi, piuttosto che un nome di persona, Alfredo (Alafrith), si suggerisce “alda” e frith, o “frida/freda”, pace, abbondanza. “Alda” è la forma longobarda, la forma tedesca, ovvero germanico dell’ovest, più simile al franco, è “alte”, antico e nobile nello stesso tempo, con la “–a” finale divenuta “–e”. In inglese è “old”, con la caduta della finale più trasformazione della “a” in “o”, ma c’è anche la forma “elders”, Anziani, dove addirittura la “o” iniziale diventa “e”, una completa trasformazione vocalica, tipica del germanico occidentale. Il longobardo invece mantiene la “a”, come avviene in certe lingue scandinave, più arcaiche: per Paolo Diacono i Longobardi deriverebbero dal Sud della Svezia e dallo Jutland attuali. In Svezia vi è una città chiamata Sala. E, sopra Sala, vi è Uppsala: upp, inglese up, sopra, Sala. Non solo, ma frith/frida/freda è femminile e la vocale terminale di “alda” diventa “aldi”, anche se la cosa può essere solo un fenomeno fonetico, sprovvisto di significato grammaticale.
Ci sarebbe molto da dire sulla questione dell’epoca romano-barbarica cosiddetta e sul tema degli “Sclavones”, gli “slavi” che i Longobardi portarono con sé, dalla “Pannonia” (attuale Ungheria) e sulla loro effettiva appartenenza etnica. Tre cose vanno, in brevissimo, notate: che questo soggiorno in est Europa rese i Longobardi ben diversi dai Germani occidentali e che, dunque, che vi si mescolassero è molto improbabile; che le bufale campane, portate dai Longobardi, son di origine bulgara, cioè balcanica; che l’origine bretone per la parte di Marcianise che dittonga nella pronuncia non tiene conto che lì si tratta di uno “schwa” seguito da “i” e non, come invece in inglese, da una “a” seguita dalla “i” (come accade nel termine inglese “I”, io).
Il succo della vexata quaestio è che, in realtà, spiace ricordarlo, la penisola italiana, ed in particolare il Sud, ha intrattenuto con i Balcani delle relazioni molto più strette di quel che comunemente si voglia ammettere. Spiace ricordarlo.
Andrea A. Ianniello



domenica 19 maggio 2013

Un armistizio indispensabile


 E’ difficile che parli di politica sulle pagine del blog, ma questa volta pare proprio necessario.
A quanti è capitato di leggere l’editoriale di Angelo Panebianco pubblicato su “corriere.it” del 19 maggio 2013 (http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_19/un-armistizio-indispensabile-panebianco_a87af51a-c04b-11e2-9979-2bdfd7767391.shtml)?
C’è da restare senza parole: difficilmente, anche negli ultimi travagliatissimi tempi, è capitato di trovare una così grande quantità di banalità, luoghi comuni ed analisi per lo meno “discutibili” a fronte di un problema semplice ed evidente da comprendere: da quasi un ventennio, la politica italiana è imprigionata tra gli appetiti di un imprenditore smisuratamente arrivista e la connivenza con una finta opposizione.
Ma per Panebianco non è così: la coincidenza tra le sentenze che riguardano Berlusconi e la nascita del nuovo esecutivo stanno accendendo fibrillazioni (che peraltro vede solo lui) tra PD e PDL. Se il PD dovesse implodere (“se”?), il futuro bipolarismo potrebbe vedere il centrodestra contrapporsi al Movimento 5 Stelle, il che sarebbe l’opposto della pacificazione.
Cioè: la preoccupazione di Panebianco non riguarda il fatto che il reale Capo del Governo è stato condannato in secondo grado per un reato a spese dello stesso Stato che lui rappresenta e pertanto interdetto per 5 anni dai pubblici uffici. Il problema sarebbe la contrapposizione tra quel signore che tiene in scacco con ogni mezzo il paese ed il Movimento 5 Stelle che, magari con qualche pecca, reclama legalità.
Ma oltre a ragioni contingenti, esistono ragioni più profonde.
Qui il Nostro è senza freni: “dietro il «Berlusconi sì/Berlusconi no» su cui siamo inchiodati da venti anni, possiamo scoprire i solchi che dividono alcune «tribù sociali» italiane.”
Uno sarebbe autorizzato a pensare che “le tribù” sono quelle che contrappongono i ladri di Stato agli onesti; il 10% delle famiglie che detiene il 47% della ricchezza (rapporto di Fisac Cgil relativo ai salari del 2012) contro il restante 90% che deve accontentarsi delle briciole; gli appartenenti a caste e/o corporazioni contro chi per poter emergere è costretto a scappare dal proprio paese.
Macché: le tribù contrapposte sono “lavoratori dipendenti” contro “lavoratori autonomi”.
Pertanto, il porsi il dilemma pro o contro Berlusconi, scopre il nervo alla contrapposizione tra “dipendenti” bravi ed onesti contribuenti, contro “autonomi” farabutti e tendenzialmente disonesti. A parte la banalità di tale visione (quanti sono i dipendenti che per non morire di fame devono fare un secondo lavoro “in nero” e quanti sono i piccoli imprenditori onesti?), Panebianco dimentica che il nerbo dell’economia italiana è costituito proprio dai cosiddetti “piccoli”, peraltro abbondantemente ed indistintamente massacrati da un sistema fiscale in delirio.
Ma non è finita: perché esistono anche “le divisioni regionali (Nord/Sud)” che compongono “un quadro di ostilità incrociate, radicate e, a tratti, anche feroci”.
La soluzione? E’ la politica, che deve cercare di eliminarli!
E come? Magari affidandosi a illustri pacificatori, ad esempio un Bossi, un Borghezio, un Lupi o un Brunetta? O, più in generale, ricorrendo a quegli stessi  personaggi che col loro linguaggio da trivio hanno preso a calci qualunque forma di moderazione spalancando le porte all'ostilità?
Da un quadro del genere, uno non si attenderebbe alcuna speranza.
Ma non è così!
La speranza è la provincia! Quella “molto meno disgregata di ciò che appare se si osserva solo la vita pubblica delle grandi città. Ci sono risorse, anche di coesione sociale, che la crisi non è ancora riuscita a intaccare e che una politica saggia può valorizzare e utilizzare”.
Ora, a parte il quadro francamente improbabile della “politica saggia”, qual è la Provincia cui l’autore fa riferimento?
Sta forse parlando della ex opulenta provincia italiana che vent’anni di berlusconismo hanno contribuito a devastare dal punto di vista economico e sociale? O forse di quella provincia da cui parte la fuga verso l’estero delle menti più geniali? O magari di quella provincia che porta una ragazzina minorenne, ambiziosa e scaltra direttamente da una vita dignitosa ma senza sbocchi apparenti, alle “cene eleganti” di un satrapo ultrasettantenne con un’ingordigia sessuale senza fine?
Il quale peraltro fa anche il politico ad altissimo livello: uno di quelli che, secondo l’opinione del prof. Panebianco, dovrebbe contribuire a rivitalizzare la provincia ed i suoi valori.
Una cosa giusta il professore la dice: il sistema fiscale è vessatorio. E chi dovrebbe risolvere il problema? Ma ancora la politica, che diamine!
“Occorre infine che la politica trovi il coraggio per fare le necessarie innovazioni istituzionali e mettere così in sicurezza la democrazia. Le forze che vi si oppongono sono potenti.”.
Cioè: coloro che hanno spolpato l’Italia devono improvvisamente ravvedersi e, nel nome della pacificazione (scurdammoce ‘o passato) combattere contro se stesse (le forze che si oppongono al processo democratico sono le stesse che governano il paese) per iniziare una nuova era dell’Acquario in cui vigano pace, amore, prosperità e libertà.
E ovviamente la pace nel mondo!
Ma si rende conto il professore, che auspica un intervento della principale ragione del dissesto italiano contro se stessa?
Infine, citando da fine analista un’intervista a Repubblica di Gustavo Zagrebelsky, se la prende con chi si oppone al cambiamento della Costituzione. Dimenticando un piccolo particolare:  nella citata intervista Zagrebelsky punta l’indice solo contro quella riforma della Carta in senso presidenziale fatta apposta per consolidare le attuali oligarchie e rendere i cittadini meno consapevoli  e liberi.
Ah, detto per inciso: il prof. Panebianco col suo invidiabile curriculum accademico, sicuramente sarà stato lautamente ricompensato dal “Corriere” per redigere questo editoriale.
Secondo Sergio Rizzo il suo giornale avrebbe ricevuto un contributo  pubblico sotto forma di benefici telefonici e crediti di imposta di “solo” 2.839.000€ (http://www.ilpost.it/2012/04/13/quanti-contributi-pubblici-prende-il-corriere/).
Secondo altre fonti (http://www.fanpage.it/finanziamento-pubblico-ai-giornali-le-cifre-di-unanomalia-tutta-italiana/) il contributo totale erogato al gruppo RCS Corriere della Sera Gazzetta dello Sport sarebbe ben più cospicuo: 23.500.000€.
Sarebbe simpatico che quei fondi venissero comunque tagliati!

domenica 17 febbraio 2013

Dal 29 gennaio sono cambiate le regole per il conseguimento della patente


L’esame di guida è più difficile.
Una circolare del Ministero precisa con abbondanza di dettagli quali sono le capacità che i nuovi aspiranti conducenti devono possedere per superare l’esame pratico per il conseguimento della patente B.  
La circolare prevede che l’esame si articoli in tre fasi distinte, le prime due propedeutiche alla terza, unica peraltro a svolgersi in strada.
Il candidato deve mostrare di padroneggiare il veicolo anche dal punto di vista dell’utilizzo dei vari dispositivi che ne compongono la dotazione, nonché eseguire alcuni semplici controlli di sicurezza, quali livello dei liquidi ed usura degli pneumatici.
E’ conseguentemente aumentata la durata complessiva: su strada sono previsti almeno 25 minuti effetivi di guida, oltre al tempo necessario allo svolgimento delle fasi preliminari. E finalmente si aprono anche le porte dell’autostrada per lo svolgimento degli esami!
In precedenza il minimo dei 25 minuti (peraltro molto raramente rispettato) corrispondeva al tempo complessivo fissato per l’intera prova e praticamente mai si usciva dal circuito urbano.
Lo scopo è quello di fornire una migliore preparazione ai neo conducenti i quali, soprattutto perché in gran parte giovani, spesso esprimono al volante quanto di peggio possa far parte della loro natura.
L’intento è nobile e sembra andare molto più in là rispetto a manovre di semplice maniera quali le ore di guida obbligatorie.
Questo almeno in teoria.
Ma purtroppo siamo in Italia.
Il nostro paese ha completato con la circolare citata il recepimento di una direttiva europea relativa all’uniformazione delle procedure e della didattica per il conseguimento della patente di guida. Peccato che la direttiva europea, la 1263, risalga al dicembre 1980!
Più di 30 anni fa la sensibilità dell’Unione europea prevedeva che “La parte dell'esame prevista al punto 6 (quella su strada ndr) avrà luogo, possibilmente, su strade situate al di fuori degli agglomerati e su autostrade, nonché nella circolazione urbana.”.
Questo significa che per tutti questi anni i conducenti hanno conseguito la patente con standard di valutazione più bassi (o molto più bassi), rispetto a quanto previsto con evidente maggior lungimiranza a livello europeo.
Ma non è finita: rs 741.5: ordinanza sull’ammissione alla circolazione di persone e veicoli (Ordinanza sull’ammissione alla circolazione, OAC) Confederazione Elvetica.
All’allegato 12 relativo all’art. 22: (http://www.admin.ch/ch/i/rs/741_51/app12.html) si trova che il candidato deve eseguire controlli specifici sul veicolo molto simili a quelli richiesti ai giovani aspiranti del nosto paese. Solo che l’ordinanza Svizzera è del 1976!
Tutto ciò si presta a considerazioni: non perdiamo l’occasione per dimostrare che la sicurezza stradale è nel nostro paese un fatto scarsamente percepito. L’allineamento a una normativa più stringente è stato fatto all’ultimo momento e con interventi a gamba tesa sulla periodicità degli esami: in fase di emanazione delle nuove circolari (perché le procedure si sono modificate anche per gli esami moto e per le altre categorie di patente, oltre all’introduzione di nuove) le sessioni di esame relative alle varie categorie sono state bloccate per dieci giorni in tutta Italia e quelle per le patenti A sine die. Le conseguenze dei ritardi istituzionali si sono di fatto scaricate sull’utenza, che non ha potuto usufruire di un servizio, e degli operatori del settore. I quali, oltre ad essere colpiti da un danno economico non indifferente, hanno dovuto organizzarsi in fretta e furia per adeguarsi alle nuove procedure. Il risultato finale è che un esame che richiederebbe molta più professionalità ed attenzione (è prevista, giova ribadirlo, anche la parte autostradale) viene gestito spesso con modalità non del tutto dissimili rispetto a quanto accadeva prima del 19 gennaio. Insomma: fino a ieri hai accudito ad un cavallo da tiro, da oggi devi pensare ad un purosange da corsa. Non mi interessa come lo fai, ma se il cavallo muore sono guai!
Buon senso avrebbe voluto che nel corso degli anni l’adeguamento fosse stato graduale e che il personale fosse correttamente informato e formato.
La sensazione è che, passati i primi furori, la situazione ritorni lentamente ad assestarsi su criteri simili a quelli relativi alla vecchia metodologia. Qualche dubbio sulla reale volontà di cambiamento è infatti  legittimo in un ambiente (quello delle autoscuole e della Motorizzazione Civile) che ha fatto dell’inerzia una delle ragioni della propria esistenza.
Se ciò si dimostrasse vero, ancora una volta la forma avrà prevalso sulla sostanza. Con buona pace di chi in strada muore ammazzato e di chi cerca di fare l’educatore.