sabato 27 dicembre 2014

L’epoca di Costantino

Descrivere la vita e le opere di Costantino, il grande Imperatore Romano a cui si deve tra l’altro l’Editto di Milano, è cosa difficile.
Si tratta di indagare in una sorta di melma storica.
Ci prova Andrea Ianniello, autore di un’opera di recente pubblicazione (“L’Imperatore Costantino tra storia e leggenda” Giuseppe Vozza editore – Caserta) nella quale l’autore indaga non solo sul fatto politico relativo al grande Imperatore (poco per la verità, non si tratta di una biografia propriamente detta), ma anche sul controverso periodo nel quale ha operato e sui rapporti tra Impero e Cristianesimo che hanno segnato in maniera decisiva quell’epoca.

Il IV secolo dopo Cristo è fortemente caratterizzato da una profondissima crisi che segna la romanità tutta ed in particolare quella d’Occidente.
Crisi morale, originata dalla diffusione sempre più capillare del cristianesimo nell’Impero, così come momento di grossa sofferenza in campo economico. Inoltre l’esercito ormai non era più in grado di contenere la spinta delle popolazioni barbariche oltre i confini di Roma.
Piccolo inciso: nell’accezione più tradizionale, il vocabolo "barbaro" non significava affatto “poco evoluto” o, peggio ancora “incivile”. Deriva dal greco ed indica il termine con il quale le popolazioni elleniche definivano coloro che non parlavano correttamente la lingua, dunque gli stranieri. E proprio come “stranieri”, cioè estranei a tutto ciò che è romano, venivano percepiti i barbari dal cives del III – IV secolo d.C.
Ritornando ai fatti di Roma, verso la fine del III secolo Diocleziano, allo scopo di favorire il decentramento amministrativo e per ridurre il peso delle decisioni che fino a quel momento gravavano sull’unica figura dell’Imperatore, aveva sperimentato la cosiddetta “tetrarchia”.
Due Augusti e due Cesari si erano di fatto spartiti la responsabilità amministrativa di un Impero enorme dal punto di vista territoriale.
Il seme del Medioevo era stato piantato.
Il suo processo di germogliazione, invero lentissimo, si concluderà solo verso la fine del VI secolo, quando Gregorio Magno riuscirà a riorganizzare in senso Cristiano ciò che rimaneva delle vecchie forme amministrative dell’Impero Romano.
La Roma tardo imperiale è un mondo nel quale tutto è messo in discussione, in cui praticamente in nessun campo si hanno solide piattaforme culturali sulle quali poggiare pensiero ed azione. Dal punto di vista storico, l’operare in zone di confine, cioè in un ambito nel quale i cambiamenti sociali sono così repentini da far sbiadire il limite tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, crea i presupposti affinché emergano uomini dalla fortissima personalità ed in possesso di quella creatività e di quel coraggio utili a ricondizionare in maniera incisiva la società. Ovviamente questo è anche un rischio: ad esempio dalle sabbie mobili politiche e sociali che seguirono la fine della Prima Guerra Mondiale, emersero Mussolini, Hitler e Stalin, di sicuro figure fortemente carismatiche ma non proprio degli stinchi di santo!

Nel IV secolo spiccò Costantino. Pur agendo, come si è appena visto, in un momento storico di transizione, per molti versi è ancora un Romano nel senso classico del termine. Romana è la sua formazione, Romano è il suo modo di pensare e di agire, Romano è il suo fortissimo senso dello Stato. O meglio: dal punto di vista politico  è ancora un Romano.
Già, perché esiste un tarlo.
Questo tarlo si chiama Cristianesimo.
Ianniello descrive a chiare lettere quale sia stata l’attinenza tra l’Imperatore ed il Cristianesimo, prima e dopo Ponte Milvio e quanto la frequentazione (e si potrebbe anche aggiungere “l’amicizia”) con Eusebio di Cesarea abbia influito non tanto sulla sfera dell’azione politica dell’Imperatore, quanto su quella intima.  
Ponte Milvio è molto leggenda rinascimentale (Raffaello docet): secondo una delle tradizioni, prima della battaglia Costantino avrebbe visto in cielo (o sognato secondo la versione di Eusebio) una croce con accanto la scritta infuocata “In hoc signo vinces” – con questo simbolo tu vincerai. Costantino, il cui esercito era fortemente intriso di presenza cristiana fece precedere le truppe dal labaro imperiale con le lettere XP (Chi – Ro ovvero le prime due lettere greche della parola CHRISTOS) sovrapposte.  Fatto sta che l’Imperatore Massenzio venne sconfitto perdendo la vita e l’Impero d’Occidente fu nuovamente riunificato sotto un’unica insegna.
La leggenda vuole che quello fosse il momento topico per quanto riguarda la conversione al Cristianesimo. La realtà storica è ben diversa. È indubbio che la nuova religione ebbe un forte impatto nella coscienza dell’Imperatore che peraltro si convertì  solo in fin di vita , ma è anche indubbio che Costantino non venne mai meno al proprio compito di essere l’Imperatore di tutti i romani.
La vicinanza con Eusebio, vescovo ideologicamente vicino agli ariani che divenne il biografo del Sovrano ed al quale si deve certamente una forte influenza culturale sull’Imperatore, non gli impedì mai di avere la necessaria lucidità  per separare i fatti di coscienza dall’azione politica. Ne è prova la risolutezza con la quale diresse il Concilio di Nicea, che terminò con la sconfitta proprio di Ario e di Eusebio di Nicomedia. L’azione politica di Costantino è volta al benessere dell’Impero, che egli concepisce (e ciò è un suo grande merito) non solo in senso multietnico, ma anche culturalmente poliforme. Egli di certo è conscio della componente cristiana in rapida  ascesa, ma è per contro consapevole dell’ancora fortissimo peso della fazione di tipo tradizionale legata ai riti ed al mondo pagano.
Alla luce di questo anche l’Editto di Milano si può leggere in un’altra ottica.
Non si tratta solamente di un moto di coscienza del Sovrano, ma di vera e propria azione politica. Riconoscendo la libertà di culto ai cristiani, egli ufficializza la loro posizione all’interno dell’Impero e cerca di accoglierli nella grande famiglia della Romanità. Tanto è vero, come lo stesso Ianniello sottolinea, che l’Imperatore continuerà a presenziare ai riti ufficiali dello Stato, riti naturalmente di tipo pagano.
In realtà pare ormai abbastanza certo che attraverso l’Editto di Milano, Costantino e Licino (l’Imperatore di Oriente) si fossero adoperati per rendere effettivo l’Editto di Galerio del 311, nel quale si poneva fine alle persecuzioni di Diocleziano.

Figura di primissimo ordine sia per quanto riguarda la politica che il valore morale, Costantino riesce a rallentare la corsa verso il disfacimento dell’Impero Romano, ormai avviato inesorabilmente sul viale del tramonto. Ma ovviamente non può arrestarla. Nel IV secolo dopo Cristo, ormai Roma aveva fatto il suo tempo. Era tempo di nuove realtà e non poteva un singolo soggetto, per quanto grande fosse, impedire alla storia di fare il proprio corso.

domenica 21 settembre 2014

E adesso parliamo di adozione!

Da qualche tempo, complici due sentenze dei Tribunali di Roma e Bologna, si è aperto un dibattito, spinoso quanto discutibile nei contenuti, riguardante la possibilità di adozione da parte di famiglie non tradizionali.
Spinoso perché coinvolge una fascia di minori particolarmente disagiati, discutibile perché non sempre chi parla dimostra di conoscere la realtà dell’adozione.

In merito alle sentenze citate, sono stati accolte dai Tribunali le istanze relative a due casi di adozione speciale in base all’articolo 44 della legge 184/83 e riguardanti una coppia omosessuale che già ospitava il figlio biologico di una delle due partner (il caso di Roma) ed il riconoscimento in Italia di un’adozione portata a termine negli Stati Uniti da parte di una nostra concittadina single (quello di Bologna).
In realtà le due sentenze sono un concentrato di logica e buon senso: nel caso della coppia di Roma (peraltro sposata in Spagna), si è appurato che tra la madre non biologica e la bimba si è creato un forte legame affettivo, tale da indurre il giudice a ritenere che la figura della madre adottiva fosse alla pari di quella biologica nell’educazione del minore.
Il caso di Bologna è, se possibile, ancora più semplice: si è trattato di legittimare anche in Italia un percorso di adozione già portato a termine negli U.S.A.
Malgrado in entrambe i casi i tribunali si siano limitati ad applicare la legge, e malgrado si sia trattato di adozioni particolari, questi fatti hanno scateneto un vero e proprio putiferio riguardo alla possibilità di estendere l’adozione anche a famiglie diverse rispetto a quelle tradizionali.
E via a sproloquiare sui diritti degli omosessuali, sull’adozione dei single e su amenità varie. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, chi si è sentito di esprimere il proprio parere lo ha fatto dimostrando di non conoscere né le dinamiche dell’adozione, né tantomeno quelle relative all’aspetto affettivo ed emotivo che coinvolgono il minore.
Sperare poi che qualcuno si mettesse dalla parte del fanciullo, appare pura utopia!
La legge italiana prevede che nel processo di adozione si debbano salvaguardare primariamente gli interessi del minore. Infatti per la coppia non c’è alcune certezza relativamente al fatto che alla fine della storia arrivi un bimbo, si parla solo di “disponibilità” all’adozione.
Relativamente all’adozione nazionale, pur non essendoci dati statistici certi, si può calcolare una percentuale di coppie che arriva ad accogliere un bimbo nell’ordine del 20%.
Il che significa, tra l’altro, che le coppie che fanno richiesta sono molte di più rispetto a quelle che effettivamente adottano.
Per quanto riguarda il minore, il processo è articolato.
Vi sono casi semplici, come quelli relativi all’abbandono alla nascita o situazioni simili. In tali circostanze il Tribunale interviene immediatamente dichiarando l’adottabilità.
Ma questo non è il solo caso: il minore può essere dichiarato adottabile anche in seguito a sradicamento dalla famiglia di origine.
Ovviamente un bimbo viene tolto alla tutela genitoriale solo in presenza di fatti gravi ed accertati; gli assistenti sociali, una volta che il minore è stato accolto in una struttura, cercano peraltro di salvare il rapporto con i genitori biologici. Pertanto il minore ha ancora per anni rapporti con la madre, il padre o entrambi. Fino a quando, constatata l’impossibilità di reinserirlo nell’ambiente nel quale è nato, il Tribunale emette un decreto di adottabilità.
Un bimbo dichiarato adottabile, è in tutti i casi un bimbo traumatizzato (si parla del cosiddetto “trauma dell’abbandono” anche per i neonati).
L’avere poi a che fare con tutta una serie di soggetti relativi al mondo degli adulti diversi da mamma e papà (le figure protettive per eccellenza, anche a livello inconscio), crea nel minore angoscia, sconforto, sfiducia e tutta una serie di sentimenti che ne ostacolano il normale processo evolutivo. È pertanto fondamentale che l’adozione (una volta che il bimbo è stato abbinato ad una famiglia) vada a buon fine: in caso contrario si creerebbero tensioni che potrebbero risultare devastanti per l’equilibrio psicofisico di una creatura già abbondantemente provata.
In Italia il compito di accogliere ed educare questi bimbi è riservato alle cosiddette “case famiglia”. 
Non bisogna nascondersi: il plafond culturale italiano è fortemente pregnato dal cattolicesimo; inoltre molte case famiglia sono gestite da opere religiose. Sono moltissimi quindi i casi di minori che, dopo aver vissuto in qualche modo, trovano negli istituti religiosi qualcuno che gli trasmetta i primi veri valori.
Tra i valori cattolici primeggia quello della famiglia intesa come unione di un uomo ed una donna. Pertanto il sospetto che un bimbo possa essere impreparato ad affrontare una situazione diversa rispetto a “mamma + papà” sembra fondato.
Per quanto non ci debba essere nessuna controindicazione di tipo ideologico al fatto che l’adozione sia affidata ad una famiglia non tradizionale, la strada per arrivare ad un’effettiva ed efficace percorribilità di questa soluzione appare quindi ancora eccessivamente lunga e tortuosa.
Quello che sorprende nella maggior parte dei commenti è che si ignora allegramente tutto ciò: il reale bisogno del minore trova uno spazio secondario rispetto ai diritti degli adulti, segnando uno stravolgimento totale del principio base del prioritario interesse del minore.
Confondere i diritti civili degli omosessuali, peraltro sacrosanti, mettendoli in un unico calderone con l’adozione (che è leggermente più complessa), nonché pretendere che un bimbo, traumatizzato e sballottato qua e là, si trasformi in essere senziente (e non in evoluzione), con capacità di valutazione e di decisione tipica di un adulto, vuol dire affrontare la questione con un pressappochismo disarmante.
Alla luce di tutto cio chiedere se: “preferireste abbandone il bimbo in un orfanotrofio o darlo in adozione a un’amorevole coppia di omosessuali”, assume la valenza di una solenne sciocchezza.
Chi se ne frega del “preferireste voi”, quello che importa è “cosa è meglio per il bimbo”. Qui non si tratta di un referendum, si tratta della vita di un essere umano!
Il sospetto è che si utilizzino allegramente i bambini per portare avanti istanze nelle quali essi non c’entrano nulla. E questo, se vero, sarebbe veramente odioso.


lunedì 23 giugno 2014

Chi era Obdulio Varela

Per comprendere che era Obdulio Varela, bisogna ritornare indietro nel tempo.
E precisamente all’estate del 1950.
Il mondo era appena uscito dalla guerra ed aveva una gran voglia di riprendersi la vita. In quell’anno la FIFA aveva programmato la prima edizione dei mondiali di calcio del dopoguerra.
In Brasile.
Esclusa l’Europa, semidistrutta, e l’America del Nord, non troppo amante del soccer (come lo chiamano loro), solo il continente sudamericano offriva sufficienti infrastrutture e passione per lo svolgimento del torneo.
In Brasile perché fu l’unica nazione ad avanzare candidatura.
Parteciparono 13 squadre, minimo storico: Germania e Giappone furono escluse a priori in quanto ritenute le principali nazioni artefici della guerra che aveva devastato il mondo qualche anno prima.
In realtà ne esisteva un’altra di nazione fortemente compromessa; era l’Italia.
Ma l’Italia  era il campione uscente; anzi il bicampione uscente dal momento che aveva vinto le edizioni del 1934 e 1938. E poi, si sa, gli italiani…

Ottorino Barassi, allora presidente della Federcalcio e vicepresidente della FIFA, era anche colui che aveva custodito il trofeo, in oro massiccio, durante i tempi burrascosi della guerra.
Forse, a più di uno, il dubbio che la Coppa Rimet sarebbe scomparsa nel nulla se l’Italia non fosse stata invitata, era venuto.
Fatto sta che si presentò una nazionale orfana del Grande Torino e reduce da una lunga traversata oceanica (provate a dirlo voi, nel 1950, ad un gruppo di calciatori di affrontare un viaggio aereo dall’Italia al Brasile dopo Superga!).
Non facemmo una gran figura e fummo subito rispediti a casa, ma la Coppa era rimasta in Brasile!
Per la FIFA: missione compiuta; per l’Italia: un importante riconoscimento a livello internazionale.
E Dio solo sa quanto ne avevamo bisogno.
Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato, e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.” Così Alcide De Gasperi il 10 agosto 1946 alla Conferenza di Pace di Parigi.
Non proprio un clima di simpatia verso il nostro paese.

La formula del torneo prevedeva 4 gironi iniziali di 4 squadre.
Si ritirarono le nazionali di Scozia, Turchia ed India, tranciando la competizione a poco per i gironi  3 e 4.
Alla fase finale ebbero accesso le prime quattro di ogni gruppo: la Spagna, la Svezia (che ci aveva eliminati), il Brasile padrone di casa, ma soprattutto l’Uruguay, che aveva centrato la qualificazione con un’unica partita contro la Bolivia, una squadra veramente mediocre (il punteggio finale fu 8-0).
Il capitano di quella nazionale era Obdulio Varela, ormai ultratrentenne, piedi sgraziati, faceva il centromediano.
Ma aveva personalità da vendere.
Nella fase finale del torneo, giocata all’italiana, il Brasile calpestò prima la Svezia (7-1) e poi la Spagna (6-1).
Tredici gol fatti, due soli subiti: un rullo compressore.
Al contrario l’Uruguay impattò in rimonta con la Spagna (2-2) e, sempre in rimonta, sconfisse la Svezia (3-2).
Nell’ultima giornata si sfidarono Svezia e Spagna, confronto ormai inutile, ma soprattutto Brasile ed Uruguay. I brasiliani conducevano il girone con 4 punti (allora la vittoria valeva solo 2 punti), avevano un formidabile attacco ed i favori del pronostico. Nel Paese si respirava già aria di trionfo: nessuno poteva pensare che il piccolo e stentato Uruguay potesse mettere la morsa al grande Brasile!
L’Uruguay aveva solo tre punti: per loro non vi era altra prospettiva che la vittoria, mentre il pareggio avrebbe favorito gli avversari.
Molto di quello che accadde il 16 luglio 1950,  è circondato da leggenda.
L’unica fonte sono i racconti dei protagonisti.
Pare che, arrivati allo stadio, il rappresentante della delegazione uruguagia sia entrato negli spogliatoi abbia detto ai calciatori: “avrete fatto il vostro dovere se riuscirete a perdere con onore.”.
Obdulio trasecolò: in albergo era abituato ad essere salutato dal personale brasiliano con la mano a quattro dita (“ne prenderete almeno quattro” sembravano dirgli).
Prese per il collo il delegato e gli urlò in faccia: “se vinceremo avremo fatto il nostro dovere!”.
Già: lo stadio.
I brasiliani costruirono lo stadio della finale a Rio de Janeiro in poco più di un anno: poteva contenere fino a duecentomila spettatori.
Il suo nome era Maracanà e quel giorno, ovviamente, era pieno come un uovo.
Una folla immensa ed ostile aspettava Varela e compagni.
Obdulio, prima dell’ingresso in campo, prese la squadra e disse loro: “non guardate in alto. La partita si svolge a terra, non in alto!”.
I brasiliani, dal canto loro, ormai da giorni preparavano i festeggiamenti; erano accorsi allo stadio per gustarsi il trionfo della loro nazionale mentre in tutto il paese si aspettava con ansia il fischio finale per far esplodere il più grande carnevale della storia recente.
Il primo tempo fu stentato: gli uruguagi fecero chiaramente capire ai loro avversari che tutto erano meno che comparse. Ma il Brasile era troppo forte: ed infatti, immediatamente ad inizio ripresa, segnò il gol dell’1-0.
Quello che fece Varela subito dopo ha il sapore della leggenda.

Miyamoto Musashi è stato il più grande spadaccino giapponese.
Combatté il suo primo duello a tredici anni e fino all’età di 29 anni, si batté per altre 59 volte.
Ah, piccolo inciso: nel Giappone del XVII secolo, combattere un duello significava che uno dei due contendenti sarebbe morto.
Epico è il suo duello con Kojirō Sasaki, detto Ganryu, che avvenne nel 1612 nell’isola di Funa jima, da allora Ganryu jima.
Musashi era talmente in ritardo che Sasaki dovette mandare un suo servo a prenderlo. Questi lo trovò ancora addormentato. Si alzò, fece colazione con tutta calma, intagliò un bokken (spada di legno) e si diresse al luogo dell’appuntamento (accompagnato dal servitore di Sasaki) con un ritardo epocale.
Sasaki, al colmo della rabbia, aggredì l’avversario che gli nascondeva la sua arma. Bastò un solo singolo colpo. Sasaki cadde a terra morto.
Musashi aveva rischiato il tutto per tutto: aveva colpito il suo avversario prima che con il bokken  con l’astuzia. Era arrivato in ritardo, anzi, aveva addirittura dovuto essere sollecitato a presentarsi a duello, aveva un’arma chiaramente informale per il codice cavalleresco dei Samurai.
Tutto ciò fece infuriare Sasaki.
E la rabbia, si sa, appanna i riflessi!
Non sapremo mai cosa sarebbe successo se Musashi e Sasaki si fossero sfidati secondo le regole d’onore del duello, o quale sarebbe stato l’esito se Sasaki non avesse abboccato alla trappola del rivale. È possibile che, in quest’ultimo caso,  il trucco di Musashi avrebbe potuto trasformarsi in boomerang. Musashi, conscio della forza e, forse, anche della superiorità dell’antagonista, comprese che l’ unico modo per avere successo era quello di sfruttare il punto debole dell’avversario. La gestione della rabbia a cui un Samurai, abituato alle regole del Bushido, evidentemente non era abituato!

Il Brasile era chiaramente molto più forte dell’Uruguay. Varela si rese immediatamente conto che se avessero ripreso immediatamente il gioco, c’era il rischio concreto che i Carioca, sull’onda dell’entusiasmo, avrebbero potuto segnare ancora.
Dopo il gol, prese il pallone e, ostentando calma olimpica, si diresse verso il guardalinee.
Questi aveva per un attimo alzato la bandierina, in occasione del gol Brasiliano, per segnalare un fuorigioco.
Un attimo che a Varela non era sfuggito.
Chiese un interprete (il guardalinee era inglese) e disse che il gol andava annullato.
Il pubblico, prima in preda all’entusiasmo, col passare del tempo (pare che questa pantomima sia durata sette minuti), iniziò ad inveire contro il capitano uruguagio.
Non si sa se Varela abbia pensato che era circondato da duecentomila persone infuriate senza alcuna rete di protezione. Sarebbe bastato che uno, uno solo, fosse sceso in campo e avrebbe potuto scatenarsi il finimondo.
Varela stava rischiando il tutto per tutto!
Ovviamente era certo che la sua protesta non avrebbe portato ad alcun frutto.
Era consapevole però che il tempo giocava a suo favore: i brasiliani si sgonfiavano di tensione agonistica e si gonfiavano di rabbia, mentre i suoi compagni prendevano coraggio. Se il capitano, da solo, aveva sfidato l’arbitro, il guardalinee, gli avversari e duecentomila spettatori, allora niente era impossibile!
Ma se i brasiliani non avessero abboccato, o se uno spettatore avesse invaso il campo …
Alla ripresa del gioco, il Brasile, convinto che ormai fosse fatta, si trovò di fronte ad undici leoni che mordevano i garretti ad ogni palla.
La partita finì 2-1 per la Celeste.
In tutto il Brasile avvennero scene di disperazione: subito dopo la partita si ebbero una decina di suicidi tra gli spettatori, e nel volgere di 24 ore il numero salì rapidamente.
Il carnevale era passato: fu la più grande e cocente delusione che il paese abbia subito nella sua storia recente.
Fu coniato il termine “maracanazo” per indicare la sconfitta del Brasile contro ogni pronostico. La nazionale sostituì la propria divisa (bianca) con quella verdeoro attuale.
Ciò che successe quella sera ci è stato raccontato dallo stesso Varela.
O meglio: Osvaldo Soriano, scrittore e giornalista argentino, ne ha fatto poesia:
“Ci siamo ficcati in un angolo a bere e di lì guardavamo la gente. Tutti stavano piangendo. Sembra una bugia; ma la gente aveva davvero le lacrime agli occhi. D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava disperato. Piangeva come un bambino e diceva: – Obdulio ci ha fottuti – e piangeva sempre di più. Io lo guardavo e mi faceva pena. Loro avevano preparato il carnevale più grande del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio, gliel’avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel Carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza? Ho pensato all’Uruguay. La gente doveva essere felice. Ma io ero lì, a Rio de Janeiro, in mezzo a tutte quelle persone sconsolate. Mi sono ricordato del mio odio quando ci avevano segnato il goal, della mia rabbia, che adesso non era più mia ma mi faceva male lo stesso”.



giovedì 3 aprile 2014

Una fine “alternativa”

 Quando mio figlio (quinta elementare) mi ha chiesto di inventare un sequel dell’Aida, in realtà ho avuto un tuffo al cuore.
Sinceramente: dopo una giornata massacrante, le ultime persona a cui potevo pensare erano Aida, Amneris, Radames e la loro struggente storia.
Abbiamo però inventato una soluzione “alternativa”: la storia è stata rivisitata e la conclusione un po’ azzardata.
Questo è il risultato della collaborazione tra un bimbo di 10 anni ed il suo decerebrato padre.


“Quando Radames morì, Amneris fu triste.
Per una settimana.
Poi capì una cosa importante: il Regno era tutto suo e ne poteva fare ciò che voleva!
Quindi varò un programma di governo chiamato “Tutto Festa”.
Il programma prevedeva:
1)      La riforma del calendario settimanale.
 Il nuovo calendario, sempre di sette giorni, fu così strutturato. Primo giorno della settimana: domenica; secondo giorno della settimana: domenica; ecc. ecc; settimo giorno della settimana: lunedì.
Amneris si rese però conto che senza il suo “non fidanzato” Radames non avrebbe avuto il coraggio di comandare.
A quel punto, Aida pensò di telefonare col cellulare ad Amneris: “fatti da parte brutta strega!” le disse.
Amneris rispose: “Befana che non sei altro, i cellulari non sono ancora stati inventati!”
Aida ribattè: “Di che ti preoccupi tu, dei cellulari? Preoccupati della cellulite!”
In quel momento comparve Radames e disse: “comm’è ‘o fatt’?”
E vissero tutti felici e contenti.
Cioè con tutti i denti.
Infatti nessuno mai andò dal dentista.”

Manu con la complicità di papà che ti vuole tanto bene!

(speriano che Verdi e Ghislanzoni non ci maledicano da lassù)

mercoledì 1 gennaio 2014

Lettera aperta ai colleghi quarantenni

 Caro collega,
in occasione del 2014 mi permetto di disturbarti per qualche minuto.
In genere in questo periodo le alte cariche istituzionali rivolgono agli italiani il loro discorso  di sintesi dell’anno appena trascorso e di prospettiva per quello a venire.
Da parecchi anni il tutto si riduce ad un pistolotto senza significato in cui parole vuote fanno da contorno al nulla intellettuale dal punto di vista dei contenuti.
Io, che sono plebeo e privo di qualsiasi potere significativo, cercherò di punzecchiarti lo spirito nella speranza che le mie parole possano in qualche modo farti riflettere o, per lo meno, divertire.

Ti sarai sicuramente reso conto che la tua situazione ed il futuro sono abbondantemente compromessi, malgrado i tromboni istituzionali continuino a cantare il loro peàna e a strillare il ritornello “la crisi è finita”. Se vorrai realizzare qualcosa per te ed i tuoi figli, sei costretto (se non altro) a pensare di abbandonare questo paese.
Purtroppo (per te) la tua crescita umana e professionale nonché le tue esperienze più significative sono da riferirsi ad un periodo della storia di questo paese sufficientemente disgraziato. Il paragone tra l’Italia ed un qualsiasi altro paese dell’Europa evoluta è impossibile: in confronto al dinamismo di molti nostri vicini, abbiamo mediamente la stessa agilità di un bradipo sotto anestesia.
Ovviamente, a meno che uno non voglia passare per fesso, è impossibile pensare che si tratti solo di un caso. Nel nostro settore, da qualche tempo c’è un accanimento indiscriminato contro Groupon e/o simili, come se il solo controllo di queste politiche commerciali da operetta portasse alla risoluzione dei problemi della categoria.
Groupon o quelli che non fanno le guide obbligatorie, NON sono affatto la CAUSA della crisi, ma semplicemente uno degli  EFFETTI.
Perché allora fanno tanta presa?
Perché il cliente medio italiano è abituato quasi esclusivamente a scegliere in funzione del prezzo, e quindi è abbondantemente aduso alla mediocrità.
E perché l’imprenditore italiano medio è abituato a fornire prodotti di scarsa qualità per fare concorrenza di prezzo ai cinesi, oppure ad immettere sul mercato prodotti leggermente migliori a prezzi da spilorcio. Inoltre, dal punto di vista della sicurezza stradale, siamo ancora fermi ad una sorta di medioevo intellettuale dal quale pare difficile schiodarsi.
In realtà la categoria paga decenni di superficialità, pressappochismo e scarsa qualificazione, fatti questi che hanno minato profondamente nel pubblico l’immagine del “formatore” alla guida.
E per “categoria” devi intendere quella a cui appartieni TU, che dovrai lavorare fino alla soglia della tomba. Coloro che questa situazione l’hanno creata e te l’hanno lasciata in eredità sono invece ben coperti ed al sicuro: dopo aver spolpato il mercato fino all’osso, a te, cornuto e mazziato, hanno lasciato i piatti da lavare!
Un po’ è sempre stato costume degli italiani quello di essere opportunisti: la storia, anche recente, è densa di personaggi dai sani ed immutabili principi che, non appena c’è odore di poter acchiappare una qualche prebenda, gettano nel cesso i sani ed immutabili principi, tirano lo sciacquone e con disarmante quanto invidiabile nonchalance, si tuffano sul carro del vincitore di turno.
Pier Paolo Pasolini, in un memorabile articolo sul Corriere della Sera (“Cos’è questo golpe”, 14 novembre 1974) seppe cogliere bene l’aspetto drammatico che ha tuttora per la maggioranza degli italiani questa pericolosa assenza di onestà intellettuale.
La situazione che vivi, dunque, ha per responsabili uomini e fatti ben circoscritti, ma che l’opinione pubblica, formata essenzialmente su media asserviti agli interessi più disparati, ancora si rifiuta di vedere.
Ti hanno fregato gli uomini che hanno retto le sorti dell’Italia in questi ultimi decenni (per lo meno a partire dalla seconda metà degli anni ’70), e coloro che avrebbero dovuto far opposizione (soprattutto nella cosiddetta “Seconda Repubblica”), evidentemente collusi.
Questo fatto è divenuto esasperante dalla seconda metà degli anni ’90, momento a partire dal quale la scena politica è dominata da UN SOLO personaggio con una missione ben precisa: pensare ai cazzi propri.
Ti hanno fregato tutti coloro che hanno cercato sempre di dare la colpa agli altri: ai terroni, agli extracomunitari, ai “diversi” in generale. Solo per nascondere una pochezza culturale ed ideologica  senza molti precedenti in Italia. Sono, per inciso, quegli stessi signori che stanno affondando la Regione più produttiva d’Italia e stanno riducendo l’ex Capitale Morale al rango di una città senz’anima.
Ti ha fregato un sistema giuridico fatto apposta per favorire i criminali e la corruzione, che è riuscito a trasformare il tessuto sociale e produttivo dal Paese involvendolo da dinamico ed innovatore (cfr. boom economico degli anni ’60) a parassitario e clientelare.
Ti sta fregando una Pubblica Amministrazione strutturata in modo lento e macchinoso, affinché la soluzione dei problemi avvenga in tempi storici, se paragonati a quelli dell’era di Internet.
Ti sta fregando soprattutto il fatto che questo controsistema ha avuto tutto il tempo per crearsi degli anticorpi. Per cui le tue denunce e la tua sete di onestà vengono trasformati in urla stridenti di una voce fuori dal coro. Oltre al fatto che è impossibile effettuare controlli là dove il malcostume è una regola, in sostanza, sei un rompipalle.
E poiché la tua vita professionale ha ancora più futuro che passato, da questo punto di vista hai tutto da perdere.

Buon 2014 (dal profondo del cuore)!