mercoledì 28 settembre 2011

La Milano di Porta Genova

La Milano degli anni ’70 era ancora ricca di una eccezionale vitalità di quartiere.
Accanto alla nascente “city” degli affari, vi era ancora la “città” dell’industria, quella formata dalle fabbriche delle periferie e dalle case di ringhiera degli operai. La ricchezza umana che esplodeva tra via Tortona e via Savona, soprattutto nella zona immediatamente adiacente alla stazione di Porta Genova, era l’indice del fermento, col quale la vecchia Milano di prima della guerra si stava fondendo con la nuova città. I movimenti migratori dal meridione degli anni ’50 e ’60 avevano prodotto un nuovo tessuto sociale. All’inizio vi era senz’altro ostilità e rigetto tra i locali e queste persone con una storia ed una cultura affatto diversa; in seguito, molto lentamente, le differenze geografiche si ricomposero in funzione dei problemi pratici.
L’affitto da pagare, i figli da mandare a scuola, i problemi di lavoro non stavano certo a guardare alla provenienza. I figli degli immigrati e quelli dei milanesi iniziarono ad incontrarsi, a frequentarsi, a sposarsi. In sostanza: negli anni ’90 non si poteva più parlare di “milanese” con la stessa accezione di trenta anni prima: la storia aveva superato le diversità.
Vivere Porta Genova negli anni ’70 significava vivere quel fermento. La via Tortona, verso la fine, si apriva sui palazzoni moderni; percorrendola a ritroso, dopo l’incrocio con la via Bergognone, si abbandonava la città per entrare in una dimensione più paesana. Proprio all’angolo tra via Tortona e via Bergognone vi è ancora un caseggiato in puro stile “industria di periferia” che era allora adibito a scuola elementare.  I ricordi più marcati di quegli anni sono però i profumi: l’odore del caffè diffuso in strada nella prima mattinata (la scuola iniziava alle otto), il profumo del pane appena sfornato, il sentore grasso e ricco dei risotti verso mezzogiorno. Le case ammassate ed i passaggi stretti li facevano ristagnare parecchio e ciò era uno spettacolo per l’olfatto.
Chi avesse avuto la possibilità di guardare in alto, avrebbe visto lo spettacolo dei tetti. Le antenne televisive formavano una foresta di metallo tra gli abbaini attraverso i quali si vedevano le vecchie attendere alle loro occupazioni. Molti tra gli abitanti del quartiere avevano fatto (o subito) la guerra; erano sopravvissuti alla fame, alle bombe, al terrore dell’occupazione nazifascista. Entrando nelle vecchie case si trovavano ancora, di tanto in tanto, souvenir bellici. Un elmetto, scritte dei partigiani sui muri di quegli scantinati nascosti in cui, con gli occhi di un adulto, si può ben immaginare si sia svolta attività clandestina. Gli anziani (reduci o meno) si mischiavano con gli operai dell’Ansaldo che, a fiumi raggiungevano la fabbrica per iniziare il loro turno di lavoro, ed ai numerosi colletti bianchi che popolavano la parte moderna della via. Allora ero un bambino timido e spaventato di fronte a questi adulti coi volti segnati dalla fatica. Guardavo le loro tute blu e le valigette ventiquattrore con un misto di paura e curiosità e non mi rendevo conto (e come avrebbe mai potuto essere diversamente, vista l’età) dell’eccezionale vitalità che stava trasformando quella parte di città, una volta ancora, in uno spettacolare laboratorio antropologico.

Oggi è persino difficile ritrovare le tracce di quel periodo: la via Tortona è diventata una delle via più alla moda della città. Anche in senso lato: in quel dedalo di stradine laterali un tempo impercorribili di notte, si trovano ormai solo agenzie di fashion ed eteree modelle, altissime ed anoressiche, che passeggiano frettolosamente. Non esistono più i piccoli negozi alimentari di quartiere nei quali si trovava ogni tipo di mercanzia, dal pane al latte, dalle caramelle alla pasta. Europa Radio non trasmette più il miglior jazz d’Italia sugli 88,300 Mhz in modulazione di frequenza dalla sua piccola roccaforte di via Tortona 14; Elda Botta, anima di quel sogno pazzesco e mia professoressa di italiano alle medie, ha terminato il suo viaggio.
Ma chi ha nell’animo quella straordinaria storia di Porta Genova, riesce ancora a respirarne la magia.

giovedì 22 settembre 2011

Ma è solo utenza “debole”?

Spesso sui giornali sono riportate notizie di incidenti occorsi a pedoni e ciclisti; la cosiddetta “utenza debole”.
Nel contesto sociale attuale, è purtroppo diffusa una generale insofferenza nei riguardi delle norme di comportamento in strada, anche quelle più elementari. Scarsa sensibilità, mancanza di un’adeguate formazione ed aggiornamento, fatto sta che alle volte viene da chiedersi se le persone sono realmente consapevoli dei rischi che corrono compiendo delle manovre sciagurate.Tra i più pericolosi vi sono senz’altro i ciclisti, i quali, sentendosi forti in base a presunte norme di precedenza ed agili per la facilità di guida del veicolo, ne combinano letteralmente di tutti i colori.Bisogna invece ricordare che la bicicletta, in base alle norma del Codice della Strada, è un veicolo come tutti gli altri e pertanto soggetto come gli altri al rispetto della normativa.  Pertanto quei ciclisti che si tuffano allegramente contromano, che non si fermano ai semafori, che si fiondano in mezzo alla carreggiata senza guardare, che si infilano nello spazio compreso tra la fiancata destra delle auto ed il marciapiede, lo fanno  soprattutto a  PROPRIO rischio e pericolo. In prima battuta considerando il fatto che l’equilibrio instabile della bicicletta è a rischio ad ogni minimo contatto!Bisogna inoltra ricordare che i ciclisti hanno la precedenza sui veicoli negli attraversamenti ciclabili della carreggiata E NON negli attraversamenti pedonali. Quindi se un ciclista vuole utilizzare un attraversamento pedonale, è obbligato a scendere dal mezzo e ad accompagnarlo a spinta. Il ciclista, inoltre, NON PUO’ utilizzare i marciapiedi, dal momento che questi ultimi sono destinati ad un pubblico pedonale.
A difesa della categoria c’è da dire che nelle nostre città le piste ciclabili scarseggiano, così come è scarsa la considerazione che si ha dell’utenza debole in generale. Spesso i pedoni sono trattati alla stregua di arredo urbano, così come un automobilista medio presta scarsa attenzione allo specchio di destra (che anche se non obbligatorio è ormai presente in quasi tutte le auto) quando svolta a destra.
Sufficienza? Disattenzione? Sottovalutazione del pericolo e/o supervalutazione delle proprie capacità?
Fatto sta che troppo spesso gli incidenti si possono evitare.  Ricordiamoci sempre che il 90% degli incidenti è causato da errore umano. E quindi è evitabile !!!

venerdì 16 settembre 2011

La “patente” e la “consapevolezza”

Molti sono ancora convinti che per conseguire la patente “bisogna” solo guidare in un certo modo, stare molto attenti alla forma (guai se ti fermi 10 centimetri dopo la linea di arresto), imparare a fare i parcheggi ecc. Tutto ciò sminuisce il valore del percorso formativo.
Quando si parla di guida, espressioni come “bisogna”, “si deve”, “è necessario”, perdono in gran parte dei casi il loro significato.
È importante che il conducente si senta sempre stimolato a cogliere il valore e le difficoltà che la strada può comportare anche al di là delle prescrizioni del Codice.  La guida è un’attività in continua evoluzione: oggi i veicoli e le tecniche non sono più quelli di trent’anni fa e fra trenta anni saranno superati. E allora cosa fare?
Di certo un buon punto di partenza può essere la cura e lo sviluppo della capacità di reagire immediatamente: imparare cioè a fornire una risposta diversa in presenza dello stesso stimolo.
Ed esempio: io posso capitare dieci volte in un quarto d’ora allo stesso incrocio (identico stimolo), ma il mio comportamento dovrà rispondere alla situazione momentanea (una volta c’è un pedone; un’altra ho la via libera ecc.). Ovviamente più passa il tempo e maggiormente si affina questa capacità. Al fine di migliorare con gli anni il proprio stile di guida, la semplice “pratica” quotidiana della strada è importante ma non basta.
Un conducente alla prime armi, avrà la tendenza a rapportarsi ai comportamenti di chi è navigato senza averne peraltro la capacità. Non si impara a guidare per semplice imitazione: chi conduce da decenni avrà un’attitudine all’analisi e alla previsione delle potenziali situazioni di rischio che va ben oltre quella legata “alla patente” e che inoltre è difficile trasmettere al neofita. Proprio perché acquisita nel tempo. Il neopatentato che cercasse semplicemente di imitare, oltre ad assorbire in pieno i difetti del proprio soggetto di imitazione, si potrebbe paragonare a colui che, avendo seguito un corso di pittura per corrispondenza, volesse dimostrare di essere Giotto!
In realtà la “consapevolezza” la si costruisce nel corso del tempo partendo da basi semplici ed ordinarie.
Ad esempio un serio percorso formativo iniziale, una certa esperienza “di strada”, ma soprattutto una chiara idea dei propri limiti  e di quelli del proprio veicolo.
Guidare al massimo è una cosa che va lasciata ai piloti in pista; in strada il semplice buon senso vorrebbe che ognuno di noi fosse al di sotto della propria soglia di guardia. Perché?
Perché se succede qualcosa di imprevisto si ha ancora l’opportunità di reagire. Un conducente che guida al limite delle capacità, in caso di imprevisto può contare sulla personale risorsa tecnica (ATTENZIONE: le manovre di emergenza SONO DIFFICILI, soprattutto quando entra in gioco il fattore emotivo) oppure … sulla fortuna!
In linea generale la formazione per conseguire la patente viene vista come una sorta di cilicio: una “punizione” necessaria per raggiungere l’obiettivo ma da dimenticare in fretta, inoltre la maggior parte dei conducenti non seguirà altri corsi di perfezionamento alla guida a meno che non abbia specifici interessi o esigenze professionali.
Se a questo aggiungiamo che gli esami di guida sono ancora strutturati come trent’anni fa (e quindi decisamente troppo facili per gli standard di circolazione odierni), è facile intuire come la “consapevolezza” maturi nel neo patentato in tempi molto lunghi.
Seguire con intelligenza un iter didattico aiuta a leggere la strada anche al di là della semplice forma, a comprendere le ripercussioni della segnaletica sul tracciato stradale e ad intuirne i pericoli. Ma soprattutto aiuta a non sentirsi dei piloti di Formula 1 per il solo fatto di aver superato l’esame di guida. E a diventare buoni conducenti in tempi più ridotti.

lunedì 12 settembre 2011

Da che parte sorge il sole qui?

Questo Blog è dedicato a Mimì Ianniello.
È un nome che ha poco significato per tutti coloro che Caserta la hanno sentita solo nominare o poco più. Per i Casertani (o una certa parte di essi) invece, Domenico Ianniello è stato un personaggio. Giornalista, storico del territorio, uomo di cultura a tutto tondo, ma prima ancora profondo conoscitore della Terra di Lavoro (che ha amato in modo viscerale per tutta la vita) e della sua gente.
E stato anche, anzi soprattutto, uomo schierato.
Al giorno d’oggi è facile confondere “schierato” con “intransigente” o, peggio ancora “settario”. E invece no; Domenico Ianniello, Mimì per tutti, aveva una dote straordinaria: il rispetto totale per l’individuo ed il suo pensiero. Il che aveva lo portava a scegliere le proprie amicizie a prescindere da opinioni e gusti personali.
Mai scontato, mai banale, sempre aperto al confronto, anche serrato, purché nell’ambito della convivenza civile e del rispetto. Ed è esattamente ciò che cercheremo di fare, nel nostro piccolo, di questo blog. Le regole sono semplici: verranno cancellati solo i post che contengono insulti, riferimenti all’intolleranza e al razzismo, turpiloquio. Cercheremo, nell’ambito dell’educazione stradale e della problematiche ad essa legate, di formare ed informare. E se non ci riusciremo … pazienza: sarà solo per demerito nostro.
Autoscuola La Motta.
P.S. la frase che accompagna il titolo è tratta da un aneddoto ricordato da Lino Martone. Potrete Leggerlo sul link: http://www.casertace.it/home.asp?ultime_news_id=11972.