venerdì 16 settembre 2011

La “patente” e la “consapevolezza”

Molti sono ancora convinti che per conseguire la patente “bisogna” solo guidare in un certo modo, stare molto attenti alla forma (guai se ti fermi 10 centimetri dopo la linea di arresto), imparare a fare i parcheggi ecc. Tutto ciò sminuisce il valore del percorso formativo.
Quando si parla di guida, espressioni come “bisogna”, “si deve”, “è necessario”, perdono in gran parte dei casi il loro significato.
È importante che il conducente si senta sempre stimolato a cogliere il valore e le difficoltà che la strada può comportare anche al di là delle prescrizioni del Codice.  La guida è un’attività in continua evoluzione: oggi i veicoli e le tecniche non sono più quelli di trent’anni fa e fra trenta anni saranno superati. E allora cosa fare?
Di certo un buon punto di partenza può essere la cura e lo sviluppo della capacità di reagire immediatamente: imparare cioè a fornire una risposta diversa in presenza dello stesso stimolo.
Ed esempio: io posso capitare dieci volte in un quarto d’ora allo stesso incrocio (identico stimolo), ma il mio comportamento dovrà rispondere alla situazione momentanea (una volta c’è un pedone; un’altra ho la via libera ecc.). Ovviamente più passa il tempo e maggiormente si affina questa capacità. Al fine di migliorare con gli anni il proprio stile di guida, la semplice “pratica” quotidiana della strada è importante ma non basta.
Un conducente alla prime armi, avrà la tendenza a rapportarsi ai comportamenti di chi è navigato senza averne peraltro la capacità. Non si impara a guidare per semplice imitazione: chi conduce da decenni avrà un’attitudine all’analisi e alla previsione delle potenziali situazioni di rischio che va ben oltre quella legata “alla patente” e che inoltre è difficile trasmettere al neofita. Proprio perché acquisita nel tempo. Il neopatentato che cercasse semplicemente di imitare, oltre ad assorbire in pieno i difetti del proprio soggetto di imitazione, si potrebbe paragonare a colui che, avendo seguito un corso di pittura per corrispondenza, volesse dimostrare di essere Giotto!
In realtà la “consapevolezza” la si costruisce nel corso del tempo partendo da basi semplici ed ordinarie.
Ad esempio un serio percorso formativo iniziale, una certa esperienza “di strada”, ma soprattutto una chiara idea dei propri limiti  e di quelli del proprio veicolo.
Guidare al massimo è una cosa che va lasciata ai piloti in pista; in strada il semplice buon senso vorrebbe che ognuno di noi fosse al di sotto della propria soglia di guardia. Perché?
Perché se succede qualcosa di imprevisto si ha ancora l’opportunità di reagire. Un conducente che guida al limite delle capacità, in caso di imprevisto può contare sulla personale risorsa tecnica (ATTENZIONE: le manovre di emergenza SONO DIFFICILI, soprattutto quando entra in gioco il fattore emotivo) oppure … sulla fortuna!
In linea generale la formazione per conseguire la patente viene vista come una sorta di cilicio: una “punizione” necessaria per raggiungere l’obiettivo ma da dimenticare in fretta, inoltre la maggior parte dei conducenti non seguirà altri corsi di perfezionamento alla guida a meno che non abbia specifici interessi o esigenze professionali.
Se a questo aggiungiamo che gli esami di guida sono ancora strutturati come trent’anni fa (e quindi decisamente troppo facili per gli standard di circolazione odierni), è facile intuire come la “consapevolezza” maturi nel neo patentato in tempi molto lunghi.
Seguire con intelligenza un iter didattico aiuta a leggere la strada anche al di là della semplice forma, a comprendere le ripercussioni della segnaletica sul tracciato stradale e ad intuirne i pericoli. Ma soprattutto aiuta a non sentirsi dei piloti di Formula 1 per il solo fatto di aver superato l’esame di guida. E a diventare buoni conducenti in tempi più ridotti.

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