Per
comprendere che era Obdulio Varela, bisogna ritornare indietro nel tempo.
E
precisamente all’estate del 1950.
Il
mondo era appena uscito dalla guerra ed aveva una gran voglia di riprendersi la
vita. In quell’anno la FIFA aveva programmato la prima edizione dei mondiali di
calcio del dopoguerra.
In
Brasile.
Esclusa
l’Europa, semidistrutta, e l’America del Nord, non troppo amante del soccer
(come lo chiamano loro), solo il continente sudamericano offriva sufficienti
infrastrutture e passione per lo svolgimento del torneo.
In
Brasile perché fu l’unica nazione ad avanzare candidatura.
Parteciparono
13 squadre, minimo storico: Germania e Giappone furono escluse a priori in
quanto ritenute le principali nazioni artefici della guerra che aveva devastato
il mondo qualche anno prima.
In
realtà ne esisteva un’altra di nazione fortemente compromessa; era l’Italia.
Ma
l’Italia era il campione uscente; anzi
il bicampione uscente dal momento che aveva vinto le edizioni del 1934 e 1938.
E poi, si sa, gli italiani…
Ottorino
Barassi, allora presidente della Federcalcio e vicepresidente della FIFA, era
anche colui che aveva custodito il trofeo, in oro massiccio, durante i tempi
burrascosi della guerra.
Forse,
a più di uno, il dubbio che la Coppa Rimet sarebbe scomparsa nel nulla se
l’Italia non fosse stata invitata, era venuto.
Fatto
sta che si presentò una nazionale orfana del Grande Torino e reduce da una
lunga traversata oceanica (provate a dirlo voi, nel 1950, ad un gruppo di
calciatori di affrontare un viaggio aereo dall’Italia al Brasile dopo
Superga!).
Non
facemmo una gran figura e fummo subito rispediti a casa, ma la Coppa era
rimasta in Brasile!
Per
la FIFA: missione compiuta; per l’Italia: un importante riconoscimento a
livello internazionale.
E
Dio solo sa quanto ne avevamo bisogno.
“Prendendo la parola in questo consesso
mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me:
e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come
imputato, e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già
formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.” Così
Alcide De Gasperi il 10 agosto 1946 alla Conferenza di Pace di Parigi.
Non
proprio un clima di simpatia verso il nostro paese.
La
formula del torneo prevedeva 4 gironi iniziali di 4 squadre.
Si
ritirarono le nazionali di Scozia, Turchia ed India, tranciando la competizione
a poco per i gironi 3 e 4.
Alla
fase finale ebbero accesso le prime quattro di ogni gruppo: la Spagna, la
Svezia (che ci aveva eliminati), il Brasile padrone di casa, ma soprattutto
l’Uruguay, che aveva centrato la qualificazione con un’unica partita contro la
Bolivia, una squadra veramente mediocre (il punteggio finale fu 8-0).
Il
capitano di quella nazionale era Obdulio Varela, ormai ultratrentenne, piedi
sgraziati, faceva il centromediano.
Ma
aveva personalità da vendere.
Nella
fase finale del torneo, giocata all’italiana, il Brasile calpestò prima la
Svezia (7-1) e poi la Spagna (6-1).
Tredici
gol fatti, due soli subiti: un rullo compressore.
Al
contrario l’Uruguay impattò in rimonta con la Spagna (2-2) e, sempre in
rimonta, sconfisse la Svezia (3-2).
Nell’ultima
giornata si sfidarono Svezia e Spagna, confronto ormai inutile, ma soprattutto
Brasile ed Uruguay. I brasiliani conducevano il girone con 4 punti (allora la
vittoria valeva solo 2 punti), avevano un formidabile attacco ed i favori del
pronostico. Nel Paese si respirava già aria di trionfo: nessuno poteva pensare
che il piccolo e stentato Uruguay potesse mettere la morsa al grande Brasile!
L’Uruguay
aveva solo tre punti: per loro non vi era altra prospettiva che la vittoria,
mentre il pareggio avrebbe favorito gli avversari.
Molto
di quello che accadde il 16 luglio 1950, è circondato da leggenda.
L’unica
fonte sono i racconti dei protagonisti.
Pare
che, arrivati allo stadio, il rappresentante della delegazione uruguagia sia
entrato negli spogliatoi abbia detto ai calciatori: “avrete fatto il vostro
dovere se riuscirete a perdere con onore.”.
Obdulio
trasecolò: in albergo era abituato ad essere salutato dal personale brasiliano
con la mano a quattro dita (“ne prenderete almeno quattro” sembravano dirgli).
Prese
per il collo il delegato e gli urlò in faccia: “se vinceremo avremo fatto il
nostro dovere!”.
Già:
lo stadio.
I
brasiliani costruirono lo stadio della finale a Rio de Janeiro in poco più di
un anno: poteva contenere fino a duecentomila spettatori.
Il
suo nome era Maracanà e quel giorno, ovviamente, era pieno come un uovo.
Una
folla immensa ed ostile aspettava Varela e compagni.
Obdulio,
prima dell’ingresso in campo, prese la squadra e disse loro: “non guardate in
alto. La partita si svolge a terra, non in alto!”.
I
brasiliani, dal canto loro, ormai da giorni preparavano i festeggiamenti; erano
accorsi allo stadio per gustarsi il trionfo della loro nazionale mentre in
tutto il paese si aspettava con ansia il fischio finale per far esplodere il
più grande carnevale della storia recente.
Il
primo tempo fu stentato: gli uruguagi fecero chiaramente capire ai loro
avversari che tutto erano meno che comparse. Ma il Brasile era troppo forte: ed
infatti, immediatamente ad inizio ripresa, segnò il gol dell’1-0.
Quello
che fece Varela subito dopo ha il sapore della leggenda.
Miyamoto
Musashi è stato il più grande spadaccino giapponese.
Combatté
il suo primo duello a tredici anni e fino all’età di 29 anni, si batté per
altre 59 volte.
Ah,
piccolo inciso: nel Giappone del XVII secolo, combattere un duello significava
che uno dei due contendenti sarebbe morto.
Epico
è il suo duello con Kojirō Sasaki,
detto Ganryu, che avvenne nel 1612 nell’isola di Funa jima, da allora Ganryu
jima.
Musashi
era talmente in ritardo che Sasaki dovette mandare un suo servo a prenderlo. Questi
lo trovò ancora addormentato. Si alzò, fece colazione con tutta calma, intagliò
un bokken (spada di legno) e si
diresse al luogo dell’appuntamento (accompagnato dal servitore di Sasaki) con
un ritardo epocale.
Sasaki,
al colmo della rabbia, aggredì l’avversario che gli nascondeva la sua arma. Bastò
un solo singolo colpo. Sasaki cadde a terra morto.
Musashi
aveva rischiato il tutto per tutto: aveva colpito il suo avversario prima che
con il bokken con l’astuzia. Era arrivato in ritardo, anzi, aveva
addirittura dovuto essere sollecitato a presentarsi a duello, aveva un’arma
chiaramente informale per il codice cavalleresco dei Samurai.
Tutto
ciò fece infuriare Sasaki.
E
la rabbia, si sa, appanna i riflessi!
Non
sapremo mai cosa sarebbe successo se Musashi e Sasaki si fossero sfidati secondo
le regole d’onore del duello, o quale sarebbe stato l’esito se Sasaki non avesse
abboccato alla trappola del rivale. È possibile che, in quest’ultimo caso, il trucco di Musashi avrebbe potuto
trasformarsi in boomerang. Musashi, conscio della forza e, forse, anche della
superiorità dell’antagonista, comprese che l’ unico modo per avere successo era
quello di sfruttare il punto debole dell’avversario. La gestione della rabbia a
cui un Samurai, abituato alle regole del Bushido, evidentemente non era abituato!
Il
Brasile era chiaramente molto più forte dell’Uruguay. Varela si rese
immediatamente conto che se avessero ripreso immediatamente il gioco, c’era il
rischio concreto che i Carioca, sull’onda dell’entusiasmo, avrebbero potuto
segnare ancora.
Dopo
il gol, prese il pallone e, ostentando calma olimpica, si diresse verso il
guardalinee.
Questi
aveva per un attimo alzato la bandierina, in occasione del gol Brasiliano, per
segnalare un fuorigioco.
Un
attimo che a Varela non era sfuggito.
Chiese
un interprete (il guardalinee era inglese) e disse che il gol andava annullato.
Il
pubblico, prima in preda all’entusiasmo, col passare del tempo (pare che questa
pantomima sia durata sette minuti), iniziò ad inveire contro il capitano
uruguagio.
Non
si sa se Varela abbia pensato che era circondato da duecentomila persone
infuriate senza alcuna rete di protezione. Sarebbe bastato che uno, uno solo,
fosse sceso in campo e avrebbe potuto scatenarsi il finimondo.
Varela
stava rischiando il tutto per tutto!
Ovviamente
era certo che la sua protesta non avrebbe portato ad alcun frutto.
Era
consapevole però che il tempo giocava a suo favore: i brasiliani si sgonfiavano
di tensione agonistica e si gonfiavano di rabbia, mentre i suoi compagni
prendevano coraggio. Se il capitano, da solo, aveva sfidato l’arbitro, il
guardalinee, gli avversari e duecentomila spettatori, allora niente era
impossibile!
Ma
se i brasiliani non avessero abboccato, o se uno spettatore avesse invaso il
campo …
Alla
ripresa del gioco, il Brasile, convinto che ormai fosse fatta, si trovò di
fronte ad undici leoni che mordevano i garretti ad ogni palla.
La
partita finì 2-1 per la Celeste.
In
tutto il Brasile avvennero scene di disperazione: subito dopo la partita si
ebbero una decina di suicidi tra gli spettatori, e nel volgere di 24 ore il
numero salì rapidamente.
Il
carnevale era passato: fu la più grande e cocente delusione che il paese abbia
subito nella sua storia recente.
Fu
coniato il termine “maracanazo” per
indicare la sconfitta del Brasile contro ogni pronostico. La nazionale sostituì
la propria divisa (bianca) con quella verdeoro attuale.
Ciò
che successe quella sera ci è stato raccontato dallo stesso Varela.
O
meglio: Osvaldo Soriano, scrittore e giornalista argentino, ne ha fatto poesia:
“Ci siamo
ficcati in un angolo a bere e di lì guardavamo la gente. Tutti stavano
piangendo. Sembra una bugia; ma la gente aveva davvero le lacrime agli occhi.
D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che sembrava disperato.
Piangeva come un bambino e diceva: – Obdulio ci ha fottuti – e piangeva sempre
di più. Io lo guardavo e mi faceva pena. Loro avevano preparato il carnevale
più grande del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel
tizio, gliel’avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero
amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel Carnevale, vedere come
la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto
e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto
a tutta quella tristezza? Ho pensato all’Uruguay. La gente doveva essere
felice. Ma io ero lì, a Rio de Janeiro, in mezzo a tutte quelle persone
sconsolate. Mi sono ricordato del mio odio quando ci avevano segnato il goal,
della mia rabbia, che adesso non era più mia ma mi faceva male lo stesso”.