In effetti, “l’accumularsi della
tradizione” è alla radice di ogni sviluppo culturale. Cultura e tradizione
sono legate a doppio filo. Far parte di una cultura significa, in effetti, far
parte di una determinata tradizione culturale. Se ne può esser parte
direttamente o solo indirettamente, di riflesso, questo è vero. Oggi, però,
abbiamo individui, ed in ogni parte del mondo, che non sono parte, neppure indirettamente, di una qualsiasi tradizione culturale. Le reazioni
violente, senza scopo apparente, nascono da coloro i quali, sentendo rabbia,
anche forse per giustissime ragioni, sono del tutto incapaci di esprimerlo nei
termini di una tradizione culturale qualsiasi, per quanto magari compresa solo
alla lontana ed indirettamente. Non possono, allora, che esprimere in modo
rozzo e bruto lo stato che sentono. Oggi abbiamo movimenti, ma di solo corpo,
senza testa. Non può che agire così chi, ormai, non ha più storia. Il problema
della tradizione demolita, in effetti, è oggi da ricollegarsi ad un altro
problema, esploso negli ultimi tempi: la distruzione della storia. I due
fenomeni sono ricollegabili direttamente.
Anche qui, non si è raggiunto il
culmine in due giorni. Prima la tradizione è stata posta in questione, poi la
si è distrutta con la globalizzazione. Il capitalismo nella fase della
globalizzazione è stato il più potente distruttore di tradizioni della storia,
altro che comunismo! Ma è passato per “liberatore”, qui è stato il gioco delle
tre carte! Prima della fine del secolo XVIII e del XIX secolo poteva esistere
la fine di una tradizione, la lotta di una tradizione culturale contro l’altra,
con la conseguente distruzione di quella soccombente, ma mai si trattava di distruzione “della” tradizione tout court, integralmente, “in quanto tale”,
fuori da un’altra aggettivazione che la faccia comprendere, tipo tradizione
giudeo-cristiana o d’altro genere. Si parla di lotta fra tradizione e modernità
solo da quell’epoca, che, però, come si è detto, è quella del capitalismo nella
sua fase precedente alla
globalizzazione. La globalizzazione è l’epoca nella quale la lotta si è
definitivamente conclusa con la vittoria della modernità. Ma, ed ecco la
risultante, questa vittoria crea un vuoto e viene riempita da ciò che si reputa,
nel mondo moderno stesso!, debba essere o fosse la tradizione. Si tratta di una
tradizione come vista oggi, il taglio rispetto alla storia impedisce di vedere
le cose come sono. Ma l’effetto finale, allora, sarà una sorta di ibridazione.
Le forme tradizionali, quindi, possono sussistere, ma sostanzialmente in una
forma “mista” con la modernità, un “ibrido”
tradizione/modernità. E un ibrido non può avere l’autorevolezza del passato, né
la sua forza. Quest’ibrido alla fin fine è impotente, come il mulo, frutto
dell’unione fra asino e cavallo, ma il mulo non dà altri muli! Da un mulo non
hai un altro mulo. Il che rimette in moto il ciclo distruttivo, se quest’ibrido
non si fa forte della radici storiche e non cerca di ricollegarvisi, fuori dal
gioco di specchi moderni. Ma è molto più difficile di quel che si creda.
Il richiamarsi al discorso
“identitario” è inutile o ben poco utile, a tal proposito. Infatti, l’identità
è un fenomeno non solo complesso ed articolato, ma mutevole nel tempo, capace
di adattamenti, cambiamenti, evoluzioni, arretramenti, modifiche, pur rimanendo
l’identità se stessa. E’ tale capacità di cambiare
rimanendo se stessi che testimonia di
un nucleo “identitario”, nucleo che l’Occidente ha perso, qualsiasi cosa
vengano a dirci sulla pretesa identità, quali che siano i voli pindarici detti
a tale scopo. Un’identità vera, seria, non
isterica – l’isterismo denota sempre un’identità debole – è in realtà una
composizione di tradizioni culturali diverse. L’identità occidentale si
compone di varie correnti tradizionali, così quella cinese, indù o altro.
A questo punto, occorre andare
avanti nel nostro discorso ponendosi due domande: 1) Che cosa c’è nel
capitalismo nella fase della globalizzazione che gli fa combattere ogni forma
di tradizione, in quanto tale, qualsiasi essa sia; 2) Se la tradizione
sia solo un oggetto storico o rifletta dell’altro.
Il primo punto è d’importanza
decisiva. Il capitalismo distrugge ogni tradizione perché è un agente di
uniformizzazione. Per il capitalismo c’è un solo “imperativo categorico”, il
resto è questione di gusti soggettivi, tutti fasulli. Dunque l’atteggiarsi del
capitalismo a “difensore della libertà religiosa” fa solo ridere riguardo
all’ingenuità di chi gli ha creduto. Dunque, ogni cosa che sia diversa da
quest’imperativo occorre cercare di ridurre alla stessa forma. I modelli si
sono ridotti nel corso del tempo, ed allo stesso modo le varietà delle culture.
Questa riduzione, quest’impoverimento ed uniformizzazione hanno, però,
costruito una sorta di “bomba culturale” nelle menti umane: l’assenza di senso,
di direzione, di uno scopo nella vita. E questa è, e sarà, la grande questione
culturale dei tempi attuali e futuri prossimi. E’ ciò che taluno ha convenuto
chiamare il “nichilismo” realizzato. Non è che “non ci sono valori”, ce n’è una
profusione, ognuno piccolo ed impotente, che abbaia contro la Luna, e tutti
sottomessi all’unico disvalore.
Riguardo al punto due, si può
pensare, con Guénon, che nelle origini delle forme tradizionali vi sia sempre
un elemento che non si può ridurre all’umano, al solo umano, per lo meno. Vi è
qualcosa che sfugge, qualcosa
d’inspiegabile, qualcosa che può esser che inevitabilmente trascenda la mera dimensione umana. Tutti quelli che hanno
distrutto le forme tradizionali, forse, non avevano come scopo distruggere
questa o quella, per dei motivi immediati, ma, in realtà, odiavano questa
stessa dimensione “X”, chiamiamola così, perché qui non interessa
definirla, qui c’interessa solo evidenziare la possibilità della sua esistenza.
Perché, in tal caso, molte caso avrebbero senso, molte cose sarebbe possibile
spiegarle.
Attenzione al grandissimo errore.
Quasi tutti quelli che vedono questa sorta di lotta tra mondo moderno e tradizione, sostengono spesso che il
capitalismo, che è stato la punta di diamante in questa lotta senza quartiere,
abbia compiuto tutto ciò per una causa economica. Nulla di più errato!
Il primato dell’economico su ogni lato della vita umana è il frutto del sistema
dominante, e cioè si tratta di un portato storico e culturale, non
di un dato “naturale” della storia umana, che, anzi, ci dimostra che il primato
dell’economico è caratteristica delle età ultime, stanche, finali. Dunque come
poteva essere che l’azione di quel sistema, il cui scopo era di imporre queste
determinate caratteristiche culturali, presupponesse, per agire,
l’esistenza già in atto di quelle stesse caratteristiche culturali?! Non può
essere. Lo scopo era imporle. E sono state imposte a causa di tutta una
serie di fattori e forze, ma quello era lo scopo.
Oggi, come si è detto, siamo nella
fase della globalizzazione, nella sua fase finale, quando il mondo
globalizzato, non potendo più espandere la sua forza, inizia inevitabilmente a
collassare su se stesso in un processo che vediamo sotto i nostri occhi. Abbiam
visto che ciò che oggi possiamo constatare storicamente non sono forme “pure”,
ma ibridi, di fatto.
Che fare, dunque? Da un lato,
bisogna essere consapevoli del fatto che sono ibridi e, dall’altro, che solo
ibridi oggi possiamo avere. Il che non significa che non vi sia la necessità di
cercare più oltre, all’indietro e all’avanti. E’ vero l’opposto, non
cercheremo però più di risolvere un problema nei suoi stessi termini, ma
cercheremo di andare oltre.
Quanto all’implosione sistemica, essa
nasce da cause interne. Sebbene la cosa ci riguardi personalmente
e per quanto non possiamo non viverla, se avremo compiuto il “passo fatale”[1]
del cambiamento di prospettiva, non avremo dubbi, anche qui, che occorra
inevitabilmente “andare oltre”, ancora e di nuovo.
Andrea Ianniello
[1]
Si narra che un re goto, per impedire al suo popolo di voler tornare
indietro, nel passare un ponte su di un grosso dirupo, dopo distrusse il ponte
stesso. La fonte è Jordanes: Storia dei Goti, Tea Storia, 1999.
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