domenica 29 maggio 2016

Gli italiani, quando vogliono, sanno essere carogne.

Si è parlato del più grande fatto sportivo di sempre.
Eppure il trionfo del Leicester City nella Premier League ha qualcosa di assonante con un evento che molti italiani over 50 sicuramente ricordano.
Contro ogni pronostico una squadra che l’anno precedente si è salvata per il rotto della cuffia, ha vinto il titolo in uno dei campionati più “democratici” ed avvincenti d’Europa.
Il Leicester ha trionfato attraverso un gioco semplice, fatto di passaggi in verticale e veloci ripartenze. Poco possesso palla, molta corsa e davanti un attaccante assatanato che si butta su ogni pallone come se quella fosse l’ultima azione della vita.
Sarà: ma questo tipo di football ricorda molto l’italianissimo “catenaccio”, con il quale la nostra nazionale ha inferto delle feroci stilettate a compagini molto più quotate.
Con questo modulo, nel 1982, l’Italia di Bearzot diventò Campeon del Mundo.
Solo assonanze?
Claudio Ranieri è testaccino.
Per gli abitanti, Testaccio è una sorta di città nella città. L’origine del nome parrebbe essere derivata da Mons Testaceus, ovvero il monte dei cocci. Una collinetta di 35 metri composta da detriti di anfore rotte di epoca Romana.  Forse, in qualsiasi altro paese del mondo, i musei farebbero a gara per accaparrarsi quei reperti.
Agli albori della storia unitaria, venne edificato il Mattatoio, che cambiò l’architettura (anche sociale) del quartiere. Con il cosidetto “quinto quarto” della macellazione (in pratica: gli scarti) i testaccini inventarono una cucina meravigliosa ed unica, elevando alimenti di una estrema povertà ad opera d’arte del gusto.
Ranieri, evidentemente, questa creatività e questa sensibilità le ha nel DNA.
È riuscito a far ascendere al trono d’Inghilterra una truppa di sconosciuti e di scarti di altri club applicando uno dei principi cardine del cosiddetto gioco all’italiana. Primo: non prenderle. Risultato: seconda miglior difesa dell’intero torneo ed una secchiata di vittorie sofferte per 1-0.

Gli italiani, quando devono tutelare i propri interessi, sanno essere carogne:
Nel 1882 l’Italia siglò con Germania ed Austria la Triplice Alleanza. Il patto avrebbe vincolato il paese ad entrare in guerra qualora una della altre nazioni firmatarie fosse stata attaccata. Nel 1914, dopo l’attentato di Sarajevo, l’Italia prima sfruttò l’art. 4 del trattato per dichiarare la propria neutralità, poi si alleò con Francia e Gran Bretagna, che avevano fatto abbondanti promesse territoriali.
Ci riprovò (con risultati ben più modesti)  trent’anni più tardi: dopo l’8 settembre il neonato Governo Badoglio fece di tutto per farsi accettare dagli Alleati come paese belligerante.
Ma  Inglesi ed Americani non si fidavano degli italiani (che, tanto per cambiare, avevano tradito il patto che li legava all’alleato tedesco), e li tennero in un angolino.
Ci vollero la forza ed il carisma di De Gasperi per far accettare nuovamente il nostro paese nel consesso del mondo democratico.

Ranieri, conscio dei limiti tecnici della sua squadra, si è protetto con l’unico modulo che poteva esaltare le caratteristiche della sua pattuglia: ha lavorato per creare un gruppo di ferro. Ha inculcato una mentalità vincente: nessuna paura, lottare uniti fino allo stremo: non passa lo straniero!
Il Leicester non crea gioco, ha vinto sfruttando quello degli avversari.

Bearzot era friulano.
Se fosse nato dieci anni prima, sarebbe stato cittadino dell’Impero Asburgico.
È ostinato: nel 1982 si porta al mondiale spagnolo Paolo Rossi, cha ha disputato una manciata di partite dopo una squalifica di due anni.
Quando l’Italia, dopo una prima fase disastrosa incrociò l’Argentina campione in carica, e soprattutto il più grande Brasile di sempre, votato a passeggiare fino alla vittoria finale, i più avrebbero voluto un pallottoliere per tenere il conto dei gol subiti.
L’Italia aveva passato il turno per uno striminzito golletto rifilato agli sconosciuti camerunensi (lasciamo perdere tutta la dietrologia).
Bearzot aveva però un gruppo unito di scherani che lo avrebbe seguito ovunque. Molti di quei 22 atleti avevano nei confronti del C.T. un debito di riconoscenza. Erano anche uomini dai solidi principi morali e con ammirevole onestà intellettuale; non ebbero nessuna difficoltà a compattarsi dietro il loro mentore e a seguirne la filosofia. Anche dopo le prime disastrose apparizioni.
Ma gli italiani riescono ad essere cinici al di là dell’immaginazione.
Contro l’Argentina l’Italia non gioca.
Semplicemente impedisce agli esterrefatti gauchos di giocare.
E poi li tramortisce con un uno-due micidiale.
E’ una vera e propria vigliaccata: gli argentini, beffati, sono anche derisi.
L’arbitro, il rumeno Rainea, perdona le entrate primitive di Gentile su Maradona, ma non quella di Gallego su Tardelli. Un minuto dopo aver accorciato le distanze, l’Argentina si ritrova in dieci.
Possiamo solo immaginare la quantità di paroline che i nostri cugini (eh si, cugini dal momento che più del 50% degli argentini riconosce una qualche origine italiana), carognoni anche loro e pieni di livore, hanno riservato alla terra dei loro avi. In primis Menotti (toh, guarda il cognome), il loro C.T.
Contro il Brasile, in teoria, non c’è partita.
Loro sono i predestinati.
I brasiliani ballano samba, ma forse hanno sottovalutato quel fantasma di calciatore che fino ad allora ha trottato in campo senza produrre nulla di concreto.
Paolo Rossi per i verdeoro, deve essere un po’ MastroTitta.

Il celebre personaggio del Rugantino  è in realtà esistito veramente. Nelle sue memorie, egli afferma di aver mazzolato  molti condannati.
La mazzolatura era forma di condanna a morte molto cruenta. Chi volesse saperne di più può trovarne una descrizione al capitolo XXXV del “Conte di Montecristo” di Dumas. Ma non in quello tradotto a firma di Emilio Franceschini, pseudonimo di non si sa bene chi, che ha censurato e modificato il testo originale.
Nella descrizione del romanziere francese, il condannato viene colpito alla tempia da una grossa mazza; quando cade il boia gli piomba addosso, gli apre la gola con un coltello ed inizia a saltargli sul ventre con i piedi per farlo morire dissanguato.
I brasiliani devono aver provato sensazioni simili quando Rossi, per tre volte si è trovato solo davanti al portiere (in verità non un gran che) ed ha affondato senza pietà il coltello nel ventre molle della difesa.
Il terzo gol, quello decisivo, è in questo senso un capolavoro di impudenza: tocco beffardo da tre passi dopo una serie di carambole.
Gentile fu primitivo con Zico tanto quanto lo fu con Maradona: la maglia numero dieci strappata ha fatto il giro del mondo insieme al volto del difensore, ricciolo mediorientale e sguardo perso ad affermare: “chi, io?”.
Probabilmente per molti anni Pablito ha dovuto rinunciare ad andare in Brasile.

Gianni Brera disse che l’Italia era squadra femmina e che per esaltarsi doveva essere aggredita perché non in grado di costruire gioco. Ed aveva ragione da vendere. Ma questo rappresenta anche una caratteristica del nostro popolo.

Nel secolo appena trascorso si ricordano due tragiche aggressioni degli italiani. Il 28 ottobre 1940 le truppe del Regio Esercito di stanza in Albania decisero di attraversare il confine e di “spezzare le reni all’Epiro”. Solo che i greci non avevano nessuna intenzione di farsele spezzare, le reni. Nell’aprile del ‘41 l’esercito tedesco intervenne in massa togliendo le castagne dal fuoco. Non contento della figura rimediata, il Duce decise di andare anche in Russia, nonostante il governo nazista avesse avuto l’accortezza di informare Mussolini dell’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica) solo la mattina del 22 giugno 1941, cioè a giochi fatti. Il messaggio poteva essere interpretato così: se i Greci ti hanno riempito di schiaffi, è meglio che con il gigante russo non ci pensi nemmeno, altrimenti finisce in polpette.
Ma il Duce era il Duce: a questo punto è meglio lasciare la parole a chi queste cose le ha vissute in prima persona. Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” (esiste una splendida trasposizione teatrale di Marco Paolini);  Giulio Bedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”.

Quando gli italiani devono difendersi, invece, hanno pochi rivali: la guerra partigiana e la lotta al terrorismo politico negli anni 70-80 insegnano.

Col Manchester City, Ranieri ha eseguito il suo capolavoro.
Robert Huth, difensore, rifila due gol alla difesa del City, che in estate era dato come uno dei candidati al titolo finale. Per i Citizens essere sconfitti in casa ad opera di un marcantonio dai piedi ruvidi, deve essere stato un colpo al cuore. Gli ultimi ad abbassare le armi sono stati quelli del Tottenham. Secondo la prestigiosa Deloitte & Touche la squadra del sobborgo londinese è tra le prime per fatturato nell’intero panorama del Regno Unito. Devono aver rosicato non poco a doversi arrendere a degli sconosciuti provincialotti!

Ma le analogie non sono finite.
I portieri, Kasper Schmeichel e Dino Zoff, sono entrambe “figli di …”.
Il primo, dopo aver vinto il campionato si è liberato dalla scomoda etichetta di essere il figlio di un campione straordinario.
I tifosi italiani, perfidi oltremodo, Zoff se lo ricordavano per le papere (presunte) durante Olanda-Italia del 1978. Nel 1982 aveva 40 anni (moltissimi) ed era dato per bollito. Quindi, “figlio di…”, all’epoca, non era proprio un complimento. Zoff si riconciliò con la nazione quando riuscì a fermare un colpo di testa velenoso del brasiliano Paulo Isidoro a non più di dieci – dodici millimetri dalla linea di porta. Mancavano due minuti alla fine della partita e quella parata valse per il Mondiale quanto la tripletta di Rossi.
Bearzot aveva una difesa rocciosa: Gentile, Cabrini, Collovati e Scirea non temevano nessuno
Ranieri si è trovato Morgan, Huth e Schlupp.
Intendiamoci: altra pasta dal punto di vista tecnico, ma stessa disciplina tattica.
Bearzot aveva Tardelli ed Oriali in mezzo al campo. Il primo non smetteva mai di correre, il secondo recuperava migliaia di palloni. Al punto che Ligabue gli ha persino dedicato una canzone.
Se non giocava Oriali, ci pensava Marini dal piede ruvido.
“Pinna d’Oro”, così era chiamato il centrocampista, passò all’Inter di Fraizzoli come gadget attaccato al promettente attaccante Libera che il club neroazzurro, nel 1975, aveva appena acquistato dal Varese. Libera finì nel dimenticatoio in un battito d’ali, Marini divenne Campione del Mondo.
Marini è bassaiolo di Lodi. A quelle latitudini la piana è poetica d’autunno, quando al mattino la nebbia ristagna al di sotto di un solicello pallido, e d’estate, quando i campi di mais riempiono tutta la campagna. La gente di Lodi, come tutte le genti di confine, è un po’ a metà: pragmatica come i Lombardi, ma carica di umanità, come gli Emiliani.
Ranieri ha Kanté e Drinkwater: il primo non finisce mai la benzina, il secondo è sempre in mischia.
Bearzot aveva Bruno Conti, burino di Nettuno cresciuto a pane e baseball, ed Antognoni ad inventare; Ranieri ha Mahrez, burino di Sarcelles, ed Albrighton .
In attacco, Bearzot aveva Rossi, Graziani ed Altobelli; Ranieri ha il tarantolato Vardy, Okazaki ed Ulloa.

Per compiere un’impresa bisogna avere dei valori, disciplina e senso della misura. Quando questo mix di spezie si incontra, allora tutto è possibile. Bisogna solo catalizzare il tutto con una buona dose di sfacciataggine e cinismo. Ed in fatto di carognaggine gli italioti sono maestri.

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