I fatti risalgono a luglio 2008: in piena Roma
un furgone condotto da un cittadino moldavo senza patente, e che per di più
risulterà pure rubato, attraversava con il semaforo rosso e a più di cento
chilometri l’ora un incrocio travolgendo un’auto e uccidendo uno degli
occupanti, lo studente Rocco Trivigno. Riportavano gravi lesioni anche gli altri due passeggeri del veicolo, la sorella di Rocco, Valentina ed il fidanzato di lei Nicola Telesca, oltre ad una terza persona, Giuseppe Giuffrida che era a bordo di un’altra auto
coinvolta nelle carambole dell’incidente.
Il 25 settembre scorso, Vasile Ignatiuc (questo
il nome del conducente del furgone rubato) è stato definitivamente condannato a
16 anni di reclusione dalla corte di Cassazione per omicidio volontario.
La sentenza storica, però, non è quella dello
scorso settembre, ma quella pronunciata il 1 febbraio 2011, dalla Prima Sezione
Penale della Suprema Corte, che stravolgendo il risultato dell'appello rinviava a
nuovo giudizio l’Ignatiuc proprio con l'imputazione di omicidio volontario.
In breve: in primo grado l’imputato venne riconosciuto
colpevole di omicidio volontario, mentre in appello il reato fu derubricato in
omicidio colposo, non ritenendo i giudici
che ci fossero sufficienti elementi per provare dolo nei fatti ascritti a Ignatiuc.
Per gli Ermellini, al contrario, il fatto di
attuare coscientemente un comportamento sconsiderato (Ignatiuc fuggiva a folle
velocità su un furgone rubato perché inseguito dalla polizia) è condizione necessaria e
sufficiente perché in caso di reato non si parli più di colpa ma di dolo. Ignatiuc
venne rinviato a nuovo giudizio e nel settembre scorso la Cassazione ha posto la
parola fine alla vicenda processuale con la definitiva condanna dell’imputato a
16 anni di reclusione.
La storicità di questa sentenza sta proprio nel
fatto ribalta il concetto di “rischio” nella circolazione stradale: non più
fatto marginale in caso di reato, ma componente
significativa nel complesso dell’accettazione delle conseguenze che talune
manovre potrebbero avere sulla incolumità degli altri utenti della strada. E’ peraltro questa una convinzione abbastanza
diffusa nella giurisprudenza di paesi certamente più all’avanguardia del nostro
in questo settore: l’incidente stradale è colà visto non come un’attenuante
(che porta all’odioso concetto che i morti sulla strada sono morti di serie
B), ma come aggravante. Il semplice superamento
di una forma mentis arcaica, unita all’applicazione della normativa esistente
cancella con un colpo di spugna tutte le ipotesi di introduzione del fantasioso
reato di “Omicidio Stradale”. Sarebbe questo un puro atto formale ed un
cedimento ad un diffuso sentimento popolare che, giustamente frustrato dalla
mancanza di fatto della punizione per chi uccide in auto, vedrebbe nell’introduzione
di questo reato uno strumento più efficace di prevenzione e repressione. In
realtà, come dimostrato da questa vicenda, la semplice applicazione della legge
è più che sufficiente per erogare sanzioni esemplari. L’introduzione dell’Omicidio
Stradale aprirebbe solo autostrade alle schermaglie processuali dei difensori degli
imputati in un sistema che ha già ampiamente dimostrato di essere ipergarantista.
Una semplice rilettura in chiave di buon senso del sano principio della
responsabilità dei propri gesti, è stata quindi molto più efficace di fiumi di
inchiostro. Rammarica il fatto che ad una simile conclusione sia pervenuta la
magistratura e non il potere politico, che in questi anni ha brillato per la
sua assenza (tranne rare eccezioni come la normativa sulla patente a punti) e forse
ora è troppo impegnato a sopravvivere.
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