martedì 11 settembre 2012

La patente in Italia; la patente in Svizzera


C’è la forma e poi c’è la sostanza.

Nell’ambito della circolazione stradale, la “forma” si può manifestare, per esempio, in tutti quei provvedimenti presi sull’onda di una tensione emotiva o magari “perché reclamati dalla piazza”. Per negligenza o, peggio, per incompetenza, non ci si preoccupa delle conseguenze che certi atti possono causare nell’utenza. Il risultato è che spesso sono inutili, qualche volta addirittura deleteri.

In Italia già non c’è un gran senso civico di base, figuriamoci poi con queste premesse quanto raffinata possa essere la sensibilità in merito alla cultura della sicurezza stradale da parte del comune cittadino.

In molti casi, si ha una visione fortemente distorta di cosa voglia dire realmente condurre un veicolo e quali rischi si corrano.  La patente è inoltre spesso percepita come un documento a cui si ha diritto, più o meno alla stregua della carta di identità.

Invece si tratta di una concessione: nessuno può vantarne la facoltà a priori, il cittadino può legittimamente solo richiedere di essere ammesso agli esami.

Della differenza tra “forma” e “sostanza”, tra “cultura dell’arroganza” e “cultura della sicurezza” ci si rende conto quando capita di leggere di come la patente venga conseguita in paesi che la sicurezza la curano da anni. L’Australia? Gli USA? Paesi che distano “millanta miglia” da noi?

No, purtroppo. Molto più semplicemente si tratta dei nostri vicini di pianerottolo: la Svizzera.

Siamo a dodici chilometri dal confine: solo dodici chilometri, che sono un’inezia rispetto alla distanza siderale che separa il nostro medioevo intellettuale (dal punto di vista della circolazione stradale) dall’Europa consapevole.

Dodici fottutissimi chilometri ed un confine che segna il limite tra due mondi.

Giova ricordare che tra tra gli under trenta, la prima causa di morte è rappresentata proprio dall’incidente stradale, fatto senz’altro noto alla redazione di Sicurauto.it, sito sul quale è apparso qualche giorno fa un interessante articolo sul percorso che un cittadino elvetico deve seguire per conseguire la patente di guida (http://www.sicurauto.it/blog/news/prendere-la-patente-in-svizzera-servono-3-anni-e-sino-a-3300-euro.html).

Sarebbe molto interessante che il testo capitasse tra le mani di tutti quei rampolli e dei loro genitori (categorie entrambe sempre più numerose) preoccupati di girare con il telefonino all’ultima moda o con l’abbigliamento griffato e che, per contrappasso, quando si tratta di patente riescono solo a proferire la regina delle banalità: “costa troppo”.

Un atteggiamento che nasconde una mentalità estremamente italiana: “a me certamente non può succedere nulla perché io sono il re dei piloti”; oppure “la colpa è dei ciclisti” (gli automobilisti), “la colpa è degli automobilisti” (i ciclisti), “la colpa è di automobilisti e di tutti quei coglioni in bicicletta” (i motociclisti).

Ed ovviamente: “io ho diritto alla patente, anzi dovrebbe essere gratis; se vengo bocciato all’esame significa che l’esaminatore non capisce nulla e che l’istruttore non sa fare il suo lavoro”.

La colpa è sempre degli altri, io non posso far nulla. “Chiagnere e fottere”: indice peraltro del livello culturale a cui si è ridotto il paese.

Esagerazioni?

Basta provare a leggere i commenti sui blog che parlano di circolazione stradale per rendersi conto che viviamo in un paese in cui questo modo di pensare è largamente diffuso.

E, cosa grave, chi è tenuto istituzionalmente a prendere decisioni  non è certamente immune da questi convincimenti:  la normativa è infatti talmente contorta che formare un allievo alla guida vuol dire imbarcarsi in una jungla: orpelli burocratici e compromessi a non finire, chili e chili di carta, timbri, certificazioni ed autocertificazioni a iosa, decine di ore spese agli sportelli quando oggi, con un click, si può comprare praticamente qualsiasi cosa (lecita o illecita) in tutto il mondo.

Ovviamente tutto questo c’entra poco con l’educazione e ha molto il sapore stantio ed ammuffito di un archivio polveroso degli anni ’50.

Aprire un’autoscuola poi, è complicato oltre ogni misura: le formalità burocratiche sono infinite, i materiali sono imponenti ed in larghissima parte inutili, il parco veicolare alla stregua di un concessionario. Ciclomotore, almeno un motociclo (meglio due, dal prossimo gennaio tre), autovettura (e se si rompe? meglio due), autocarro (da gennaio due), autobus (idem) e, ovviamente rimorchio. Il tutto in linea teorica perché all’utente la scuola guida deve garantire il conseguimento di qualsiasi patente.

In realtà, serve a limitare la concorrenza.

Un meccanismo kafkiano, una corsa ad ostacoli (per non parlare di quello che deve sopportare un disabile!), che formalmente serve a garantire la massima trasparenza, ed invece crea in chi usufruisce del servizio non la voglia di apprendere, ma la preoccupazione di essere esteticamente corretto senza preoccuparsi delle implicazioni. Ed è purtroppo così  che il meccanismo viene  percepito dalle famiglie.

Le istituzioni continuano a sfornare prevvedimenti che vanno in direzione opposta rispetto alla creazione di una corretta sensibilità: l’ultima nota positiva risale all’introduzione della patente a punti, ormai vecchia di quasi un decennio.

E poi?

Poi tutto è stato annacquato: se prendi una multa puoi legittimemente dichiarare che non eri alla guida tu (ti costa un sovraprezzo ma non subisci decurtazioni); i corsi di recupero punti non prevedono un esame finale; gli esami per il conseguimento del C.I.G (il cosiddetto “patentino” per il motorino) e per la patente A sono troppo semplici; chi fa del male non subisce conseguenze di rilievo (butti sotto un pedone sulle strisce? Sono 160€ di multa e 8 punti) e via di questo passo.

Questa tremenda superficialità si traduce in una “forma mentis” atroce: i morti ammazzati su strada sono morti di serie B.

E, per reazione, c’è sempre chi pensa di risolvere tutto invocando il capestro, magari con l’ introduzione del reato di “omicidio stradale”, utile solo ad ingarbugliare meglio la situazione.

O si strilla ad una maggiore preparazione (senza costi aggiuntivi, ovviamente), ne è una prova la recente perla delle sei ore di guida obbligatorie.

Formalmente: sei ore sono quelle obbligatorie, poi ci sono quelle propedeutiche.

Percepito in sostanza: la legge dice che in sei ore si impara a guidare.

In realtà la cultura della sicurezza si crea nel corso del tempo. In Svizzera è da decenni che il problema – strada è all’ordine del giorno nel dibattito istituzionale.  Solo investendo tempo, energie, risorse si possono creare le condizioni  affinché la sensibilità delle persone evolva. E solo quando c’è la giusta sensibilità i provvedimenti hanno la loro efficacia.

Non si può importare qui da noi il “modello svizzero” perché proprio per la mancanza di una piattaforma culturale opportuna, risulterebbe inefficace.

La bacchetta magica esiste solo nelle favole, la realtà è fatta di approfondimenti e di duro lavoro .

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